Toto, I have a feeling we are not in Kansas anymore

In una settimana della mia vita succedono cose che agli altri capitano in una decina d’anni. O anche mai.

Nell’ultimo mese hanno arrestato l’editore della testata per cui lavoravo, messo tutti i dipendenti in solidarietà, minacciato morte e pestilenze, stabilito che tutti i contratti a termine sarebbero stati terminati. Game over. Tutto questo a circa 5 settimane dal rinnovo del mio contratto.

Mentre cercavo di calcolare quanta disoccupazione NON avrei potuto prendere con lo splendido cococo che mi avevano fatto, e facevo un rapido elenco delle bestemmie note e di quelle che avrei potuto rapidamente inventare, ho ricevuto l’inaspettata chiamata di qualcuno che cercava me. Per un lavoro. In un teatro. Toh.

La settimana successiva – un paio di colloqui dopo – è passata all’insegna di pianti disperati con i miei (ex) capi e gli (ex) colleghi, lettere strappalacrime, baci perugina lasciati sulle scrivanie, io che singhiozzo alla Coop di San Ruffillo dove ormai c’è la mia foto segnaletica nel reparto ortofrutta, io che penso che la vita sia una merda, morte e pestilenze e cococo da terminare come Daniel La Russo quando Johnny gli rompe una gamba e non esiste la pietà in questo dojo, no sensei.

Ho cominciato il lavoro nuovo a sole 11 ore di distanza dallo straziante addio a quello vecchio. E no, non è l’inizio di una serie Netflix sulle droghe psichedeliche. A metà mattina ancora mi scendeva una lacrima mentre pensavo alla tazzina sporca che simbolicamente mi ha regalato il mio (ex) capo, per ricordarmi – ha detto – il grande affetto che ci lega, o forse per non dimenticare – dico io – che tutte le mattine gli facevo il caffè dopo aver scrostato quella tazzina dallo zucchero caramellato del giorno prima.

Le consapevolezze arrivano all’improvviso esattamente come le sfighe. Ed entrambe segnano il momento dopo il quale non riuscirai più a sentirti esattamente come ti sentivi prima. In un momento imprecisato di quel primo giorno, essere lì, dentro a quel teatro con i soffitti altissimi e i pavimenti a scacchi di Twin Peaks, mi è sembrato semplicemente giusto; mi sono sentita al mio posto.

Magari – dopo aver inondato di lacrime amare il banco frigo della Coop – l’uragano che è la mia esistenza doveva lasciarmi cadere proprio ad Oz, dove con tre colpi di tacco dei Dr Martens ricomincio tutto da capo e imparo qualcosa di completamente nuovo e inesplorato, del mondo e di me stessa.

Chissà perché ci risulta sempre così difficile lasciarci trascinare da quello che succede. Chissà perché facciamo l’immane fatica di opporci alla vita nel tentativo inutile di controllarla. Gli esseri umani sono talmente presuntuosi da credere di poter decidere il proprio destino, da pensare che sia più semplice, o forse meno doloroso, illudersi di tenere le redini di questa passeggiata sulla terra. Eppure sofferenze, lutti, pandemie avrebbero dovuto insegnarci che non controlliamo proprio una beata fava.

Io in questa tarda adolescenza pre-menopausa ho deciso che sono troppo stanca per trattenere la vita sui binari della mia volontà: lascerò che il treno vada dove vuole – magari deragli – mentre io mi godo il viaggio il più serenamente possibile. Accetterò quello che succede, affronterò sfighe e problemi, troverò il bello nelle cose che mi capitano. Del resto l’ho sempre fatto, solo con addosso la fatica di aver cercato invano di condurre il gioco.

Nonostante tutto non mi pento di niente

Il team maiunagioia si aggiorna e diventa team unasolagioia. Nel bel mezzo di una pandemia mondiale, tra un bonifico dell’Inps da 4 euro e 70 ed un semaforo di ordinanze che ha reso la mia vita sentimentale più noiosa di un libro di Garcia Marquez, ho trovato lavoro, grazie soprattutto al mio merito culo and a little big help from my friends.

Torno a fare la giornalista, o meglio: c’è di nuovo qualcuno che mi paga per fare quello che so fare, per essere quello che mi sento di essere. Almeno una delle mie personalità avrà uno stipendio.

Non ho mai pensato che il mestiere facesse la persona, non ho mai ritenuto che la tipologia di impiego fosse una discriminante nelle relazioni, o che aggiungesse/togliesse valore alla qualità di un essere umano. Ho conosciuto imprenditori ignoranti e superficiali, e ristoratori con una cultura smisurata ed un’intelligenza raffinata.

Io stessa sono stata barista, giornalista, cameriera: sono stata dietro le quinte dei reality Rai e nelle cucine dei ristoranti, ho servito per anni cocktail al Covo e intervistato Phil Collins e John Malkovich, sono stata a feste fighette a pochi metri da Lou Reed e a parlare di socialismo fino all’alba con il mio fruttivendolo. Sono stata per dodici anni fidanzata con un giornalaio, a cui devo buona parte di quella cultura musicale che mi ha portata ad essere oggi quello che sono. In una “vita” o nell’altra, io non mi sono mai giudicata, in molti lo hanno fatto per me.

C’è sempre una sorta di spietatezza nel valutare gli altri, che nasce dal non tenere mai conto di quello che stanno attraversando. Si chiama mancanza di empatia. Negli ultimi anni la mia esistenza è stata ribaltata da una lunga serie di eventi catastrofici, che avrebbero mandato in clinica anche Osho Rajneesh. Io ho resistito a tutto e sono sopravvissuta. Le alternative erano finire in una vasca di Xanax oppure aggrapparsi al mio non-pregiudizio: io sono sempre io, qualunque cosa faccia per pagarmi l’affitto. Questa consapevolezza ha fatto da scudo a tutti i “giornalista fallita”, ai “talento sprecato”, agli sguardi pietosi degli amici, alla delusione sul volto dei miei genitori. Per me il mio talento non era sprecato, ma convogliato su questo blog dove ho la libertà di scrivere quello che mi pare, che ho fatto completamente da sola e che mi regala costantemente soddisfazioni immense e personalissime. Non mi sono mai sentita una fallita, perché i meriti ottenuti nella mia precedente carriera sono rimasti indelebili nel mio cuore, sulle riviste per cui ho scritto, e anche nel curriculum vitae che oggi mi ha riportata su quei binari.

Sia chiaro che sono molto felice. Non nascondo che nella settimana trascorsa tra il colloquio e la firma del contratto avevo il settimo cielo dentro e facevo fatica a tenerlo tappato. Mentirei se dicessi che non ho ballato al telefono con la zia Ivana o che mio padre non aveva gli occhi lucidi quando gliel’ho detto. E ammetto anche di aver provato un lieve e passeggero sentimento di rivalsa nei confronti di tutti quelli che ritenevano che le mie ambizioni giornalistiche dovessero spegnersi per sempre, e che forse godevano dentro le viscere di questo pensiero.

Nonostante tutto non mi pento di niente. Non mi vergogno più dagli anni Novanta, di certo non di quello che ho fatto o di quello che sono. Guardo con dolcezza a quello che sono stata negli ultimi anni e con soddisfazione a quello che sono ora. Il mestiere non fa la persona, ma io fin da piccola ho sempre voluto fare la giornalista o la camionista e, come dico spesso, sono soddisfatta di essere riuscita a realizzare entrambi i miei desideri.

P.S.: Sulla gente ganza che fa lavori umili qualche anno fa scrissi questo articolo su Rolling Stone, di cui vado ancora abbastanza fiera. Non giudicate il cameriere: potrebbe essere il vostro musicista o scrittore preferito.

Ah.

In questa sospensione della vita reale che chiamiamo convenzionalmente quarantena, il concetto di “binge watching” ha sfiorato nuove vette di malattia mentale. Anche io ho dato il mio contributo alla scienza, lasciando che Netflix avanzasse in automatico per due stagioni di Master Of None, una di Tiger King, la seconda di AfterLife, le tre di Narcos (raga, qui c’è l’aggravante dell’agente Peña che ha turbato il mio sonno già tormentato dall’isolamento), un paio di film cretini, tre o quattro documentari colti (per non diventare proprio il fighino con cervello sul comodino che guarda Uomini e Donne e passa le giornate a sfogliare il “New In” di Zara).

Esaurite le novità su Netflix, ho guardato in streaming Normal People (perché avevo letto un libro della Rooney, ma per fare l’alternativa non era quello), la 195esima stagione di Grey’s Anatomy (solo perché ho cominciato a guardarlo quando avevo otto anni e voglio sapere come va a finire), e la versione serie Tv di un grande classico letterario per musicofili: High Fidelity.
Se escludiamo la fighitudine incommensurabile di Zoe Kravitz ed il fatto che il suo personaggio gestisce un negozio di dischi, per il resto mi sono rivista in quasi tutti gli episodi. Io che mi chiudo in casa a mangiare cereali e compiangermi ascoltando Prince (certo: lei a New York, io al Trappolone, ma non è questo il punto), io che vado a concerti con capi di abbigliamento che forse non sarebbero destinati all’esterno, io che alla fine raggiungo sempre gli amici anche dopo aver detto no a tutti gli inviti, io che bevo e mi ubriaco da sola al bar, io che limono con un gran figo per poi scoprire che ha il 2 davanti all’età, io che annovero tra gli ex uno con cui ho passato un weekend, io che uso le emozioni di altri per comporre playlist che sono lettere d’amore.

Non ho mai capito se i segnali arrivano tutti insieme per darmi un ceffone secco, oppure sono io a non sapere di avere i germogli di un’idea in testa, a cui cerco di ricondurre tutto quello che mi capita. Sto cercando di sfruttare questo periodo di pausa dalla vita sociale per conoscermi meglio, per scoprire chi sono al di là della Fede “in funzione” di qualcuno o qualcosa, per smettere di cercare un uomo che dia un senso alla mia presenza sulla terra oltre che alla ceretta all’inguine. Ammetto che il più delle volte mi trovo scorbutica e irritante, non uscirei con me stessa e non riesco a dare una spiegazione alla quantità di amici ganzi che nonostante tutto mi restano intorno, ma questo periodo di isolamento insieme a quella stronza di me stessa mi ha fatto ricordare com’ero quando mi volevo bene. Ero dolce, solare, entusiasta, ingenua, credulona, sfrontata e affascinante nel mio essere me stessa fregandomene altamente del giudizio degli altri.

C’è una cosa di High Fidelity che mi ha colpita più delle canzoni di Bowie e dei poster dei Wu-Tang Clan: un dialogo tra Robyn ed il suo fidanzato (che poi diventerà il migliore amico gay – story of my life), in cui lui le dice che non conta ciò che pensi di essere; è quello che ti piace a definire chi sei. A me piacciono i maglioni dei vecchi, i tatuaggi e i libri sui pirati, la montagna, gli scheletri, mi piace la frangetta corta corta e i porcini fritti, mi piace essere quella a cui gli amici chiedono consigli sulle band e si fanno trascinare dalla mia follia a Marina di Ravenna per vedere l’alba sul mare.

Tra una puntata e l’altra mi arriva un messaggio del Biondo: «Come stai? Che fai?». Gli scrivo che sto pensando di partecipare al concorsone scuola e «magari divento una prof di filosofia, mi ci vedi?». «Magari – scrive lui – la prof di filosofia che faceva la barista al Covo, scriveva su Rolling Stone e andava ai concerti al Freakout». Il mio amico mi vede così e mi vuole bene (anche) per questo. Forse allora anche gli altri. Forse allora anche io. Forse allora non è tardi per essere quello che mi piace. Forse lo sono sempre stata.

Guardo altri due episodi e mi chiama un fotografo che lavora con Sara e che ho promesso di aiutare per un progetto. Parliamo spontaneamente di qualsiasi cosa per circa un’ora, poi in un momento di silenzio mi chiede: «Ma tu chi sei?». Dunque, boh, non saprei, sono amica di Sara dall’università, facevo la giornalista, ma ora non più, ora faccio la cameriera, però insomma, mi è rimasto il fiuto per le storie interessanti. «Beh – dice lui con un adorabile accento romagnolo – ma tanto per fare la giornalista sei sempre in tempo: puoi tornare ad esserlo quando vuoi».

Ah.

Le cose che ti dice uno sconosciuto: quelle di cui avevi bisogno. Quelle che annaffiano i germogli dell’idea che non importa cosa c’è scritto sul tuo curriculum o sul campanello: io sarò sempre quella che ascolta musica nella sua testa 24 ore al giorno, che va ai concerti in pigiama, che scrive lettere d’amore di notte e fa playlist per ogni stato d’animo. E questo sarà sempre l’unico punto fisso di tutta la mia storia: il resto sono sfumature che cambiano a seconda della luce e di quanta voglia di andare a fondo ha chi le guarda.

‘A ggiornalista fallita

Di solito la gente tira le somme della propria vita in punto di morte; a me capita ogni anno alla cena di Natale milanese. Generalmente la ospita quella tra noi che ha la casa più grande e meglio arredata (io vivo in un bilocale con i muri azzurri ed i mobili gialli), le altre lasciano a casa i loro figli o i figli dei loro compagni (io ho un cane nero con le sopracciglia bionde), si parla per qualche decina di minuti delle loro adultissime scelte di vita (io non so decidere se fare un nuovo tatuaggio a colori o in bianco e nero), poi si voltano tutte verso di me e attendono con ansia che io racconti per il resto della serata di quella volta in cui per sbaglio ho dato appuntamento a due tizi nello stesso posto, o di quello che mi sono dimenticata al ristorante e sono tornata a prendere dopo dieci minuti.


Il giorno dopo, di solito, mi sveglio con un filo di depressione, vado ad una mostra, compro un pellicciotto sintetico da H&M e chiamo Daria, la mia ex collega ed ex migliore amica (ex soltanto perché vive a Barcellona, ha due bambine, un neo marito, scrive, traduce, ha un bellissimo blog e persino il tempo di farsi sfrangiare i coglioni dalla sottoscritta). Al mio generico sproloquio sul fatto che conduco una vita adolescenziale mentre tutti intorno fanno figli, hanno lavori serissimi e case arredate Kartell, mentre io ho appesa in salotto una foto autografata di David Copperfield per ricordarmi di quella volta in cui mi fece sparire, la saggia Daria risponde che io in una casa arredata Kartell con figli e marito mi romperei le palle dopo 20 minuti. Poi mi ricorda che un lavoro serissimo ce lo avevamo anche noi – in un passato nemmeno troppo remoto – che ricevevamo inviti a feste ambitissime, intervistavamo gente famosissima, subivamo mobbing violentissimo, piangevamo tanto, scrivevamo sempre meno, cliccavamo ogni giorno su migliaia di e-mail, odiavamo la suoneria del telefono aziendale che interrompeva ogni fottuto pensiero. “Io avevo i brufoli in faccia e tu prendevi le gocce per dormire”, conclude Daria. Chiudo la telefonata e penso che non è poi così male avere 20 anni a 40 anni.


Da bambina sognavo di diventare giornalista o camionista: pensandoci bene credo di aver realizzato entrambi i desideri. Il giornalismo è stato un mestiere per gran parte della mia vita, il camionismo uno stile di vita per sempre. E proprio il mio essere una grezza giramondo, capace di dormire in qualsiasi posizione ed adattarsi a qualunque circostanza, mi ha salvata dalla depressione quando il giornale per cui lavoravo con Daria è fallito miseramente, lasciando me una disoccupata qualunque. Non sapendo bene come scassinare il ponte levatoio del mio castello di autocommiserazione, ne sono uscita dall’unica strada che conoscevo: quella che avevo percorso a 20 anni. E così, risparmiandovi i dettagli sul tragitto, oggi faccio la cameriera in un’osteria del centro: un locale storico e trafficatissimo, in cui lavora gente tatuata e stilosa che casualmente ha qualcos’altro da dire ma un sacco di bollette da pagare. Il mio capo è uno scrittore, il mio collega un noto musicista, poi c’è l’editore, il cantante, l’artista. Io – per definizione dello scontroso magazziniere di Avellino – sono ‘a ggiornalista fallita.
Punti di vista. Perché al lavoro ci vado in motorino cantando a squarciagola mentre sorpasso le auto bloccate nel traffico, metà settimana la passo a casa, ho turni flessibili, un contratto di lavoro, la libertà di scrivere solo ed esclusivamente quello che mi piace, una ventina di colleghi che sono per me una famiglia, la notte dormo tranquilla e – non ultimo – posso sfoggiare tutte le magliette dei gruppi comprate in decenni di concerti. E sì, vivo in un bilocale con i muri azzurri ed i mobili gialli in compagnia del mio cane sosia di Paul Weller, ho un sacco di storie divertenti da raccontare alle cene di Natale milanesi, e non so quanti di voi possano vantarsi di quella volta in cui David Copperfield li ha fatti sparire.