In una settimana della mia vita succedono cose che agli altri capitano in una decina d’anni. O anche mai.
Nell’ultimo mese hanno arrestato l’editore della testata per cui lavoravo, messo tutti i dipendenti in solidarietà, minacciato morte e pestilenze, stabilito che tutti i contratti a termine sarebbero stati terminati. Game over. Tutto questo a circa 5 settimane dal rinnovo del mio contratto.
Mentre cercavo di calcolare quanta disoccupazione NON avrei potuto prendere con lo splendido cococo che mi avevano fatto, e facevo un rapido elenco delle bestemmie note e di quelle che avrei potuto rapidamente inventare, ho ricevuto l’inaspettata chiamata di qualcuno che cercava me. Per un lavoro. In un teatro. Toh.
La settimana successiva – un paio di colloqui dopo – è passata all’insegna di pianti disperati con i miei (ex) capi e gli (ex) colleghi, lettere strappalacrime, baci perugina lasciati sulle scrivanie, io che singhiozzo alla Coop di San Ruffillo dove ormai c’è la mia foto segnaletica nel reparto ortofrutta, io che penso che la vita sia una merda, morte e pestilenze e cococo da terminare come Daniel La Russo quando Johnny gli rompe una gamba e non esiste la pietà in questo dojo, no sensei.

Ho cominciato il lavoro nuovo a sole 11 ore di distanza dallo straziante addio a quello vecchio. E no, non è l’inizio di una serie Netflix sulle droghe psichedeliche. A metà mattina ancora mi scendeva una lacrima mentre pensavo alla tazzina sporca che simbolicamente mi ha regalato il mio (ex) capo, per ricordarmi – ha detto – il grande affetto che ci lega, o forse per non dimenticare – dico io – che tutte le mattine gli facevo il caffè dopo aver scrostato quella tazzina dallo zucchero caramellato del giorno prima.
Le consapevolezze arrivano all’improvviso esattamente come le sfighe. Ed entrambe segnano il momento dopo il quale non riuscirai più a sentirti esattamente come ti sentivi prima. In un momento imprecisato di quel primo giorno, essere lì, dentro a quel teatro con i soffitti altissimi e i pavimenti a scacchi di Twin Peaks, mi è sembrato semplicemente giusto; mi sono sentita al mio posto.
Magari – dopo aver inondato di lacrime amare il banco frigo della Coop – l’uragano che è la mia esistenza doveva lasciarmi cadere proprio ad Oz, dove con tre colpi di tacco dei Dr Martens ricomincio tutto da capo e imparo qualcosa di completamente nuovo e inesplorato, del mondo e di me stessa.
Chissà perché ci risulta sempre così difficile lasciarci trascinare da quello che succede. Chissà perché facciamo l’immane fatica di opporci alla vita nel tentativo inutile di controllarla. Gli esseri umani sono talmente presuntuosi da credere di poter decidere il proprio destino, da pensare che sia più semplice, o forse meno doloroso, illudersi di tenere le redini di questa passeggiata sulla terra. Eppure sofferenze, lutti, pandemie avrebbero dovuto insegnarci che non controlliamo proprio una beata fava.
Io in questa tarda adolescenza pre-menopausa ho deciso che sono troppo stanca per trattenere la vita sui binari della mia volontà: lascerò che il treno vada dove vuole – magari deragli – mentre io mi godo il viaggio il più serenamente possibile. Accetterò quello che succede, affronterò sfighe e problemi, troverò il bello nelle cose che mi capitano. Del resto l’ho sempre fatto, solo con addosso la fatica di aver cercato invano di condurre il gioco.