Gimme oppioidi I am pretty

Tornare a stare con i miei dopo 25 anni è un po’ come saltare 56 sedute di psicoterapia e passare direttamente dalla stretta di mano a mangiare penne al sugo a tavola con le mie nevrosi (penne di cui – ovviamente – mia madre conterà le calorie).

Due settimane fa stavo andando al lavoro in scooter, una daltonica in auto ha confuso il semaforo rosso, ha attraversato la carreggiata e mi ha centrata in pieno, spedendomi a trascorrere i successivi due mesi a casa con qualcuno che possa fare per me quel che io non riesco a fare da sola: tutto.

La prima settimana l’ho passata in ospedale, in stanza con la signora Michelina che mi illustrava i suoi centrini in molisano stretto e accendeva Canale 5 alle 6.30 per spegnerlo alle 22.30 (se esiste un inferno me lo immagino composto da: incomprensione – dolore fisico – Barbara D’Urso a volume da rave).

La seconda settimana l’ho passata in uno stato di semi-coscienza, in cui il rincoglionimento da oppioidi si alternava a feroci momenti di rabbia. Di questa fase ho vaghi ricordi, addolciti dalla bambagia degli antidolorifici e dalle visite e telefonate degli amici, di cui purtroppo ho pochissima memoria.

La terza settimana comincia ora, con il sole fuori dalla finestra della mia cameretta di bambina, rimasta intonsa mentre io attraversavo una vita; solo gli angoli arricciati delle foto attaccate con lo scotch alla scrivania e giocattoli delle mie nipoti riposti tutt’intorno a me: Madonna della sfiga e dei canali Mediaset.

Insieme alla stanza è rimasto immutato anche il comportamento dei miei genitori, acuito dalla vecchiaia e arricciato su ste stesso come le foto dei miei innumerevoli inter-rail. Mia madre è da sempre ossessionata dalla superficie. Le persone si dividono in belle e brutte: le belle sono magre, le brutte sono dal ricovero per anoressia in su. Ultimamente ho visto lievi miglioramenti quando l’ho sentita dire “Sarebbe una bella ragazza, peccato sia così grassa”, mentre guardava un’esibizione di Gaia, cantante italo-brasiliana poco più che ventenne, taglia 42. Le cose si dividono in sporche e pulite: le sporche sono tutte, le pulite sono quelle che escono dalle tre lavatrici fisse al giorno, dalla rivoluzione architettonica quotidiana della casa, dalla disinfezione ossessiva di angoli, oggetti, parti del corpo. Il giorno dopo l’incidente ha recuperato i miei effetti personali, e ha lavato IL CASCO. Ha disinfettato, pulito e lucidato quello che non solo era la prova di un incidente stradale, ma un oggetto che probabilmente non utilizzerò più nella vita, e soprattutto: chi mai laverebbe un casco? Nei rari momenti in cui non è dedita a siflarmi il pigiama mentre dormo (indossato fresco di bucato la mattina stessa), passa il tempo a programmare i pasti, in cui mette in tavola una quantità di cibo sufficiente a sfamare la popolazione del Lussemburgo, per poi cazziarmi qualsiasi cosa io tocchi: “Quella lì fa ingrassare eh”, mi fa notare mentre inforco la bietola al vapore.

Mio padre è il classico bullo di quartiere che ha sempre risolto tutto prendendo a pugni la gente. “Se questo incidente fosse successo dieci anni fa gliel’avrei fatta vedere io alla signora”, per fortuna è capitato adesso e il buon avvocato si pagherà il riscaldamento della piscina con la mia percentuale, limitandosi a mandare qualche mail all’assicurazione. Il bullismo di mio padre diventa ingestibile in compagnia, quando si trasforma in giullare che tenta di far ridere umiliando i commensali. Durante le recenti visite dei miei amici, ha messo in scena tutto il repertorio, suggerendo che mi sarei data varie martellate da sola per mettere in mostra i lividi, che starei facendo la vittima per una “piccola caduta dal motorino”, invece lui sì che è stato male spezzandosi una gamba durante una gara di motocross, e poi sembro confusa ma in realtà guardo la tv tutto il giorno, e così via, in una escalation di sminuimento che non interessa (più) né a me né tantomeno a persone che mi danno così tanto valore da venire a trovarmi fino qui, in questo paesino dove giornate tutte uguali sono scandite dalle lavatrici di mia madre e dal profumo di disinfettante.

Ed eccomi qui, seduta a tavola con l’origine di ogni mia più recondita paranoia. Io che mi vanto della mia indipendenza e autonomia, che ho sempre faticato a chiedere aiuto agli altri e ad appoggiarmi a qualcuno, sono qui a dover chiedere a mia madre se per favore può versarmi un bicchiere d’acqua e a mio padre se può sorreggermi mentre mi alzo dal letto. Io che vivo completamente sola da otto anni, sono stata investita e catapultata nella vita di due 77enni, a cui ho stravolto le giornate e le abitudini, a cui ho chiesto lo sforzo di accogliermi e la fatica di accudirmi: un’adulta immobilizzata nella stanza dei ricordi di bambina.

Nella mia esistenza gli eventi si incontrano in quel brevissimo istante di raccordo in cui mi lasciano rotolare da un estremo all’altro. Ci sono state due settimane di “vita vera” tra il mese di isolamento totale a causa del Covid e la convivenza forzata a causa dell’incidente: quindici giorni in cui ho tentato di rimettermi in pari con una quotidianità che ciclicamente viene stravolta, con il lavoro che cambia annualmente, con potenziali relazioni che riesco sempre a sabotare. Quando ho raccontato a Fiammetta dell’incidente e delle conseguenze mi ha detto: “Fede, ora con il gambone non potrai scappare”. Forse questo chiodo nell’osso è il modo (di merda) che ha la vita di dirmi “Adesso basta, adesso ti fermi”?

Sono una donna che ha paura di diventare adulta imprigionata nella mia infanzia, dove nulla è cambiato se non la consapevolezza delle cose che succedono intorno. Sono qui per dare un senso alle mie insicurezze nascoste dietro la faccia di bronzo, alle mie dipendenze emotive barricate dietro a muri di indipendenza. Ed è qui, nella stanzetta in cui dormo circondata dalle barbie, che ho riconosciuto la mia incapacità di sentirmi vittima anche quando sono oggettivamente la vittima, il non vedermi mai abbastanza bella da volermi bene, il sentirmi sempre in difetto in una casa sempre troppo sporca e disordinata. Credo che il chiodo nell’osso che mi ha piantata qui serva a farmi capire che ora devo essere io a stabilire per me stessa il livello di accettabilità delle cose, senza lasciare che a darmi valore sia la visione deforme di qualcun altro.

Rapirlonzola

La comfort zone è un bilocale accogliente vista stronzi che ti sei costruita in anni di batoste, impilando mattoni di paranoie tenuti insieme da uno strato melmoso di cazzovolete. A 41 anni posso affermare con soddisfazione che la mia vita emotiva si svolge all’interno di un resort mentale di lusso, protetto da mura di cinta che manco tra Israele e Palestina, con un ponte levatoio mai levato, circondato da un fossato pieno di coccodrilli.

Dall’interno della torre d’avorio, sprofondata in una morbida poltrona di auto-commiserazione, posso osservare/giudicare le vite degli altri, mentre accetto con clemenza i miei difetti e mi crogiolo nelle imperfezioni della mia esistenza, ovviamente lamentandomi con costanza ed inveendo contro l’accanimento della sorte nei miei confronti.
Può capitare che uno sprovveduto viandante – accecato dal bagliore della mia torre – si fermi a sbirciare attraverso qualche finestra che ho inavvertitamente lasciato aperta per areare il locale; a quel punto sbucano le lance, si alza il fuoco, esce il drago, ed io corro a rasarmi la testa a zero che non sia mai che mi caschi la treccia ed arrivi a terra fino al principe.

Anni trascorsi a selezionare meticolosamente casi umani con cui è impossibile instaurare una relazione sentimentale per tentare di instaurarci una relazione sentimentale, e poi lamentarsi con le amiche (e qui) di quanto sia impossibile instaurare una relazione sentimentale con certi casi umani. Mesi e mesi ad interagire solo ed unicamente con uomini sposati, fidanzati, padri plurimi, preti cattolici, domandandosi cos’ha lei (o il Signore) più di me, a parte la buccia di stare con uno stronzo del genere. Capita però (di rado), che durante la passeggiata inferenziale nei boschi dei disagiati, si incontri un uomo NORMALE, finito per sbaglio nel girone degli squilibrati affettivi. Capita poi (molto di rado) che questo esemplare maschile sia single, quasi coetaneo, pieno di amici ed interessi, belloccio, educato, piacevole nella conversazione, ben vestito, apparentemente equilibrato. Capita anche (quasi mai) che l’essere umano in questione mostri un vago interesse di natura sentimentale nei miei confronti, nonostante tutti i miei chiari segnali di abbandonare la nave.

A quel punto scatta il piano P. Dove P sta per PARANOIE.
Il mio cervello – incredulo di fronte a cotanta fortuna – comincia a produrre una serie di piccole immaginette mentali taglienti che vanno a conficcarsi nel pensiero di una possibile relazione affettiva. Le paranoie si propagano a partire dal piano estetico con la visione di noi due seduti sulle sdraio alla spiaggia BBK di Punta Marina: io che mi spalmo la protezione 50 sulla panza ustionata, mentre lui – lucido e ambrato – guarda la passerella di milf rinsecchite color cuoio con perizoma a filo interdentale, capelli di stoppa e bikini glitterato. Dall’idillio marittimo passo con scioltezza alle vasche a braccetto in via Indipendenza, con tutte le sbarbe 21enni in shorts inguinali che mi guardano e commentano basite come sia possibile che un bidone dell’umido stia con quel figo pazzesco (true story accaduta più volte quando accompagnavo il mio amico Beppe Bicipite a fare shopping, e le commesse mi guardavano con odio e disgusto come se qualcuno avesse vomitato sulla sedia: un trauma che non riuscirò mai a superare).
Le paranoie procedono investendo la mia casa, troppo infantile, troppo colorata, troppo piccola; il giardino non ha nemmeno l’impianto di irrigazione a goccia, in camera da letto ho un ragno a cui ho dato un nome e un faretto fulminato da quattro anni, troppi jeans, niente aria condizionata, e come potrebbe mai un uomo amare una donna che possiede quattro pellicciotti sintetici? E poi il mio cane ha l’alito fetido, dorme in testa alla gente tipo colbacco, è morboso quanto me e ha un’inspiegabile passione per le zucchine crude. Non sono intelligente, forse lo ero, ma poi mi sono bruciata le cellule guardando Uomini e Donne in quarantena, non ho idea di cosa fare della mia vita, non ho nemmeno un tailleur da donna vera, non ho mai fatto la pulizia del viso e ho scoperto l’esistenza dei messaggi Instagram soltanto un mese fa. Sono simpatica, sagace, carina, so essere una buona amica, ma non sono amabile. Ci sono troppe cose da accettare per amare me, troppi compromessi, troppe ammaccature, troppi difetti, troppe storture che solo io posso capire ed accarezzare nel mio morbido salotto di auto-aiuto.

Così di fronte al potenziale principe sparisco, mi rinchiudo in un minimondo di cui sono la principessa sola ma felice, mi lamento degli innocui casi umani che mi offrono materiale per le mie storie, mi rifugio nell’abbraccio di amici eterni e non giudicanti. Scappo senza lasciare traccia allo sfortunato essere umano che forse avrebbe dormito volentieri col mio cane in testa, e magari sarebbe stato capace di montarmi un impianto di irrigazione in giardino.
Chissà se un giorno qualche viandante riuscirà a vincere il drago, spegnere il fuoco, superare i coccodrilli, scassinare il ponte levatoio e raggiungere me e le mie pellicce sintetiche. O magari per allora i capelli saranno cresciuti abbastanza per lanciare una treccia.