Amabili resti

Se non esistesse l’amore non si farebbe Sanremo. Le canzoni parlerebbero di bonifici mancati e ferie mai godute, le poesie sarebbero dedicate ai chili persi, le opere d’arte ritrarrebbero soltanto cani, gatti e pizze al forno. L’amore è l’essenza del dolore e della felicità, è il cuore spezzato e quello impazzito, è la fonte delle lacrime più amare e magnete dei sorrisi più grandi, è il vuoto cosmico e l’universo infinito. Un sentimento estremo, un po’ come il mio carattere.

Da anni ormai non vivo l’amore per un uomo. Lo provo per il mio cane, i miei amici, la mia casa, le mie playlist spotify le lasagne vegane. Ma per gli uomini no, per loro ho provato negli ultimi tempi una varietà di sentimenti diversi, nessuno dei quali estremo come l’amore: attrazione fisica, riempimento di vuoti emotivi, affinità intellettuale, sollievo alla solitudine, curiosità. Qualche volta ho anche piagnucolato. Altre volte ho pensato di essere disposta a farmi investire da un autobus a due piani come in una canzone degli Smiths.

Ho passato anni a uscire con dei casi umani e interrogarmi su questo blog sul perché uscivo solo con dei casi umani. Un giorno, qualche mese fa, ho smesso di chiedermi perché incontravo solo persone non amabili e mi sono chiesta quando amabile fossi io. Beh, non uscirei con me stessa nemmeno se me la dessi la prima sera.

A forza di smussare gli angoli sono diventata tonda come le case nelle isole greche: mi sono allontanata così tanto dalla mia forma originale che non ricordo più com’era essere me stessa, bianca e quadrata. Il mio carattere indomabile e fumantino è stato annacquato dalla volontà di compiacere gli altri, la mia dolcezza cristallina si è impolverata per la paura che certi dolori pungenti potessero annichilirmi di nuovo, la mia autenticità è rimasta schiacciata da un cumulo di cose che è giusto fare, frasi che è giusto dire, versioni di me che è giusto essere, secondo un algoritmo interiore movimentato da traumi e paure.

Qualche mese fa mi sono riconosciuta molto poco amabile e ho cominciato a scavare tra le macerie stratificate delle mie mille vite, sperando di trovare resti intatti dell’originale. È stata dura come spostare montagne a mani nude. È stato come spogliarsi in pubblico di un vestito pesantissimo, e restare lì, nuda e infreddolita, a guardare la gente passarmi davanti senza capire, qualche volta senza nemmeno farsi domande. Qualcuno si è fermato e mi ha messo una giacchetta sulle spalle, altri mi hanno allungato un bicchier d’acqua, ma la parte più difficile l’ho fatta io, cercando di capire cosa mettermi addosso e dove andare.

Il cambiamento non è come lo immaginiamo, non ci si sveglia una mattina diversi, ci si sveglia ogni giorno leggermente più consapevoli. È un po’ come la dieta: non diventi improvvisamente Kate Moss, ma passi con calma e sacrificio dal telaio di Gegia a quello di Rihanna incinta di 8 mesi, fino a diventare la Luisa Ranieri che ti sei sempre sentita dentro.

Rinunciando a dolci e carboidrati, ma anche a compromessi e relazioni tossiche, mi sono parecchio alleggerita l’esistenza, e forse ora una chance me la darei: mi porterei a bere una birra e mi farei un sacco di domande, mi guarderei commuovermi per le stronzate e infervorarmi per le cose in cui credo, mi farei una carezza e mi stupirei del mio imbarazzo, e forse mi manderei un messaggio per dirmi che è stata una bellissima serata e che mi auguro di riuscire a trovarla, la mia strada.

Un Narcy è per sempre

Le altre postano foto scosciate con scritto “Chi non mi ama non mi merita” e ricevono pioggia di like, manciate di richieste di amicizia e proposte galanti a profusione. Io pubblico sul blog una brillante analisi post-moderna delle carenze affettive in una società contemporanea popolata da egocentrici privi di empatia e ottengo l’approvazione di uno che utilizza lo pseudonimo Narcisista Tossico.

Vero è che la pioggia di like ha la stessa utilità del gratì, mentre un Narciso auto-proclamato è per sempre: ti ammalia nella spirale della sua parlantina ego-riferita e non ne esci nemmeno buttando già una borraccia da due litri di rescue remedy.

Con buona pace di ogni mio proposito di emancipazione dai rapporti virtuali, ho ingaggiato con lui un torneo di riflessioni sui massimi sistemi: in fondo chi sono io per sottrarmi ad una sfida in cui non si vince niente, se non una coscienza aggiuntiva a quella che già ti giudica ogni mattina nello specchio del bagno?

Ieri, ad esempio, mi ha detto che la mia vita è triste. Se questo scambio fosse avvenuto un paio d’anni fa avrei fatto un’ora di autostrada soltanto per ribaltargli addosso il tavolino con sopra spritzaperol e patatine. Ieri, invece, – mentre pucciavo le chiappe in una piscina comunale di montagna dove tutti erano sconvolti dai miei tatuaggi e dal fatto che ero arrivata in auto da sola – mi sono limitata a ribattere pacatamente che la mia esistenza non è affatto misera, anzi.

“Non importa, questa è la mia narrazione di te”, ha risposto Narcy nel tentativo di non arrivare vivo alla grigliata di ferragosto. La sua narrazione di me non è interessata alla mia versione di me, perché la sua narrazione di me è in effetti la sua versione di me, e niente – se non lui stesso – è in grado di cambiarla.

(E ora ditemi che non merito una pioggia di like anche senza foto scosciata).

Riprendiamo le cose della vita da una telecamera in soggettiva: filtriamo i ricordi nelle trame sottili della nostra memoria, osserviamo le persone da dentro a questo corpo, da dietro a questi occhi di misure e colori diversi, collegando cervelli pieni di esperienze, traumi, convizioni uniche e irripetibili. Il nostro sguardo non è mai uguale a quello di qualcun altro, la nostra opinione non aderisce mai perfettamente alla realtà che vede chi ci sta accanto e questo è il bello e il dramma dell’esistenza.

Se il RIVOLUZIONARIO concetto di unicità del pensiero non bastasse, ci si mette Dio, il Cosmo, il destino, la vita a posizionarci in ruoli sempre diversi e a volte complementari, giusto per farci riflettere su quanto siamo inconsapevoli pedine nel gioco sadico dell’esperienza.

Così in una sola epoca (nel mio caso specifico in una sola settimana) possiamo passare dall’essere innamorat* non corrispost* all’altrettanto scomoda posizione di dover dire a qualcuno che non corrispondiamo il suo amore; piangiamo il dramma del distacco totale e ci facciamo consumare dall’eventualità di alimentare l’illusione dell’altro, trattenendoci dal mandare qualunque segnale di vita; accusiamo il Narcy di turno di usare la nostra ammirazione per coltivare il proprio ego e ci aggrappiamo a rapporti senza futuro per ricavarne una dose di autostima. Di volta in volta siamo i buoni e i cattivi, interpretiamo senza troppa consapevolezza il ruolo della fidanzata amorevole e quello dell’amante spietata, siamo trafitti dal dolore e conficchiamo spade di indifferenza in un piccolo cuore di scimmia, lo stesso che anche noi qualche volta abbiamo messo sanguinante tra le mani di un noncurante cavaliere oscuro.

A questo gioco di ruolo che è la vita terrena si aggiunge la narrazione di sé, ovvero la personale percezione della nostra persona fisica e intellettuale, che disperatamente tentiamo di sottoporre agli altri, e che mai e poi mai aderirà alla loro.

Un tempo era il diario segreto a contenere le nostre più riprovevoli esperienze di vita e il racconto soggettivo di queste, oggi esiste instagram per mostrare la propria idea di estetica, facebook per ammaliare il pubblico con discorsi politici e opinioni controverse, twitter per conquistare con la simpatia, un blog dal nome cretino per chi è troppo logorroica per essere contenuta in un limite di parole.

Investiamo una grande quantità di energie nel cercare di manipolare l’opinione che gli altri hanno di noi, invece di accettarla, studiarla, ed eventualmente apprezzarne o disprezzarne il riflesso nel solito specchio del bagno. Potremmo impiegare lo stesso sforzo nel costruirci una personalità degna della nostra narrazione, e poi evitare di perdere tempo con chi ne custodisce una troppo diversa, mortificante, umiliante, incompleta, svilente.

Per questo ieri non sono salita in macchina per andare a dare una scoppola all’amico Narcy, perché sto lavorando alla mia felicità con grande impegno e sacrificio, e in questo periodo ho poca voglia di convincere gli altri che la mia versione di me sia l’unica attendibile. Lui arriverà vivo alla grigliata di ferragosto con qualcuna che vede allegra e soddisfatta, io puccerò le chiappe in una piscina comunale dove il piatto vegetariano è il panino con wurstel, aspettando un suo messaggio con la sua narrazione di me, che in fondo gli piace tanto potersi costruire.

Non m’ama, non m’ama

Tra la dipendenza affettiva e la distanza emotiva corre un fiume di vocal di autoanalisi tra la mia amica Fiammetta e me, che in confronto le lettere di Jacopo Ortis sono una festa dell’amore di Cosmo. Ventuno anni e mezzo di storie personali condivise – metà esatta delle nostre vite – rimbalzano da Parigi a Bologna, afflosciandosi qualche volta contro le maglie di una bassissima rete fatta di fragilità e disistima.

Senza i miei amici starei scrivendo haiku senza senso immersa in una vasca di Xanax. Grazie a loro c’è sempre miracolosamente qualcuno che rimette ordine al caos provocato dal tornado dei miei pensieri, che poi regolarmente vomito qui, in una sorta di diario dove raccolgo quelle 3 o 4 cazzate che mi sembra di aver capito della vita, sia mai che tornino utili a qualcun altro.

Oggi è il giorno numero 3 della mia disintossicazione dalla dipendenza affettiva. Ho smesso di scambiarmi messaggini su Instagram con quello sposato, ho deciso di non scrivere su Messenger a uno che vive in un altro continente, ho finito di covare rancore e nostalgia per il tizio che mi ha ghostata, ho rinunciato a vedere l’uomo che non mi raggiunge mai, ho messo una pietra sopra alla possibilità di condividere qualcosa di più di un’amicizia con il contadino eremita che non esce dal 1984.

Diciamo che nel mio caso non è difficile rintracciare il minimo comune denominatore dei disastri sentimentali: si chiama IMPOSSIBILITÀ. Per evitare drammi e delusioni ho costruito una collana con margherite di ‘non m’ama, non m’ama’, che si sfalda in mille petali ogni volta che tento di indossarla con disinvoltura. Più un uomo è indisponibile e il nostro amore impossibile, più io mi interesso alla partita, incazzandomi poi perché non riesco mai a vincere neanche un misero set.

Le paure governano il mio inconscio e manipolano i miei incontri: mi spingono ad accettare la mediocrità, mi frenano quando rifiuto di accontentarmi, mi mostrano uno scenario in cui invecchierò sola e triste se non mi adatto ad una vita fatta di vacanze al mare, convivenza e venerdì sera liberi. Sei convinta che tutti tradiscano? Esci con uno sposato, perché se sai già che è uno stronzo infedele non potrà deluderti. Temi che un uomo possa invadere i tuoi spazi? Prenditi una sbandata per uno che vive a 5mila chilometri di distanza e vedrai che non metterà mai becco sull’arredamento di casa tua. In fondo basta poco per essere infelici.

Negli ultimi anni le mie paure si sono unite alle mie insicurezze, trasformandosi – delusione dopo delusione – in un muro altissimo che mi tiene al sicuro dal provare qualsiasi sentimento. Al riparo sotto una coltre di “sono tutti stronzi”, coperta a sua volta da un tetto di “quelli non stronzi non me li merito perché faccio schifo”, procedo inanellando prevedibili catastrofi di cui non mi godo né il bello né il cattivo tempo, tanto da qui il cielo è solo grigio e il mio elettrocardiogramma sempre piatto.

Fino a tre giorni fa. Venerdì, in una di quelle epifanie che non si sa se siano dovute ad una qualche congiunzione astrale favorevole o agli effetti postumi del rospo che leccai nel cortile della casa di campagna nel ’94, mi sono chiesta se davvero io sono fatta delle mie paure. Ho iniziato a domandarmi (e a domandare a Fiammetta in un vocal illegale da 8 minuti) se ciò che desidero coincide con quello che i traumi mi spingono a cercare, o se esiste ancora uno spazio di positività tra il mio corpo e la sagoma oscura che lo occupa, nutrita da lutti, abbandoni, mancanze e dolori.

Io voglio una relazione normale: conosci uno, ti chiede di uscire, vai a berci una birra, imbarazzo mentre ti riaccompagna all’auto, limone davanti alla panda a metano, torni a casa sorridendo per sbaglio a tutte le mignotte sui viali e aspetti un suo messaggio che sancisca la bellezza della serata. Quello che succede è invece che conosco uno, ci scriviamo per tre mesi, mi rompo le palle dei messaggini e mi presento a casa sua con la panda a metano, torno a casa fredda come il ghiaccio imprecando contro tutti i geppi che vanno ai 30 sui viali, aspetto il suo messaggio che sancisca che voleva solo scuotere un po’ la sua vita monotona, ma il messaggio neanche arriva perché è molto più facile sparire senza spiegazioni.

In questo percorso ad ostacoli (che io stessa ho piazzato) ho deciso tre giorni fa che non ho più voglia di lasciarmi governare dalle mie paure. Ho fatto un elenco di quel che desidero e deciso che non ho più intenzione di scendere a compromessi e accontentarmi di una versione tarocca dei miei obiettivi. Smetterò di frequentare il Dams se quello che voglio è fare l’avvocato, non cercherò più le mele in farmacia, non proverò a cavare il sangue dalle rape (anche se ho scoperto che dalle barbabietole si può ricavare una proteina simile all’emoglobina), non sceglierò deliberatamente di deludermi per l’ennesima volta con una prevedibile infelicità. Lascerò entrare la luce tra le fessure dei miei muri, farò crescere la parte positiva di me fino a sopraffare l’anima oscura e impaurita che mi preclude la serenità, e – cosa più importante – mi sforzerò di avere fiducia: in me, negli altri, nel futuro, nel lavoro che ho fatto fino ad oggi per avere chiaro quello che sono e quello che voglio. With a little help from my friends.

Miss Zuccherino

L’amore è l’incastro perfetto di due patologie psichiatriche (o anche tre o quattro eh, amici del poliamore non mi defollowate). L’equilibrio – precario ed effimero – su cui nasce la coppia è proprio lì in quella crepa tra le sicurezze della nostra infanzia, dove è cresciuta come un’erba infestante la dicotomia valore/amore.

Facile guardare gli altri annaspare in mezzo al bisogno di sentirsi utili, comodo giudicare dal proprio divano ogni genere di mania del controllo, narcisismo, spiriti di crocerossina e di patata, insicuri, complessati, Edipi, Medee, e via così nella discesa degli inferi del casumanesimo moderno. Molto meno semplice guardarsi nello specchio ondulato del bagno e darsi una spiegazione valida all’ennesimo fallimento sentimentale, ché la colpa non è mai tua, ma a pensarci bene neanche troppo il merito.

Per conquistare me – SPOILER – basta rivolgermi delle attenzioni. Io sono ero la bambina meno speciale del Paese: brava in tutto ma eccellente in nulla, carina ma non bella (anche se una volta ho vinto il concorso di Miss Zuccherino contro la mia volontà), intelligente ma non geniale, simpatica ma non serve a niente essere simpatiche a 16 anni (e pure a 43 preferirei annoverare tra le mie qualità il metabolismo veloce). Non mi drogavo, non dicevo balle, non andavo male a scuola, non avevo nemmeno troppa voglia di fidanzarmi con qualche adolescente scoordinato e col baffetto. Essere normale spesso ti rende invisibile: non brilli e non oscuri, così i tuoi scelgono di dedicarsi a tutto tranne che a te, perché tu, semplicemente, te la sai cavare da sola.

Così oggi – 43enne carina ma non bella, intelligente ma non geniale, simpatica ma abbiamo già detto dove ce la possiamo mettere la simpatia – vado neanche troppo inconsciamente alla ricerca di qualcuno che si accorga della mia presenza, che trovi speciale la mia mediocrità. Certo, sono ancora in una fase di autostima (e lotta alla gravità) in cui posso permettermi di non farmi bastare due attenzioni basic, altrimenti sarei qui a spiegare cos’è un blog ad un qualsiasi caso umano senza denti davanti conosciuto al pub dopo la quarta birra, ma diciamo che negli anni ho accettato una serie di compromessi, molti dei quali sono descritti con dovizia di particolari nei post precedenti.

Questo mezzo 2022 è stato già abbastanza inclemente con me, anche dal punto di vista sentimentale. Mi sono illusa e disillusa con la rapidità con cui skippo i pezzi dei Negrita nella playlist spotify del rock italiano, e a metà anno mi sento pronta per stilare un primo bilancio del marketing emotivo dei miei disastri.

Nello scandagliare la propria coscienza bisogna essere oggettivi e analitici: rintracciare il minimo comun denominatore, associarlo ad un trauma infantile, moltiplicarlo per tutte le volte che ci siamo cascate, dividerlo per il tempo che abbiamo perso a farci andare bene i fan dei Pooh e i pionieri (sposati) dell’amore libero, ed essere coscienti che il numero di giorni buttati nel cesso è direttamente proporzionale alla nostra consapevolezza di essere cretine.

Gli ingredienti che non mancano mai nel calderone di cazzate che ho fatto ultimamente sono la virtualità e l’egoismo. Con la virtualità ho un rapporto di odio e amore che Catullo spostati. Adoro vedere lo schermo del telefonino che si illumina con un messaggio, mi piace ricevere e inviare foto, canzoni, poesie, like, storie che parlano di noi ma nessuno lo sa, e poi le video-serenate, i vocal di prima mattina con la voce di Amanda Lear, il tutto mentre sono assolutamente libera di fare i cavoli miei nelle condizioni che preferisco: struccata, in mutande, il cane in braccio e una casa che sembra il bagno di XM24. Peccato che l’intensità con cui mi affeziono via whatsapp sia pari soltanto alla rapidità con cui mi stufo di questo genere di rapporto.

Egoismo è praticamente l’anagramma del nome di tutti quelli che ho frequentato quest’anno, e lo scrivo serenamente perché sono talmente egocentrati che non leggerebbero mai un blog scritto da qualcuno di esterno al loro corpo. Gente che ha la tua stessa malattia ma è molto più malata di te, uomini che lavorano solo loro, guidano nel traffico solo loro, hanno ex stronz* solo loro, parenti cagacazzi solo loro, problemi economici solo loro, case da pulire solo loro, mille impegni solo loro. E di tutto questo parlano a te h24, magari mentre sei allettata a causa di un incidente, spaventata, disorientata, ansiata. Ma a loro non importa. Dopo una brevissima fase di ammiccamenti via Instagram, il telefonino comincia a illuminarsi con i vocal delle lamentele quotidiane, le foto sono quelle del pessimo lavoro dell’idraulico, e tu ti rendi conto di aver perso l’istante preciso in cui sei passata dall’essere la principessa del buongiorno alla versione cougar del Telefono Amico.

Seguendo il mio schema di Drama Analytics, la fase successiva consiste nella pacata e oggettiva valutazione del perché cazzo sono così deficiente da mettermi in questa posizione di merda tutte le sante volte. La risposta si trova su quel sentiero impervio a ghiaioso che porta dalla ricerca della mia metà patologica alla consapevolezza che sono diventata una spettatrice qualunque ai drammi inutili della vita di qualcuno, e che dall’altra parte dello schermo dello smartphone potrei esserci io ma anche chiunque altra (sicuramente un tempo c’era la moglie, prima ancora la mamma). A metà strada tra queste due cose io mi perdo regolarmente nell’illusione che essere accogliente e comprensiva mi renda meritevole delle attenzioni che vado cercando, invece sto sovrapponendo la mia faccia a quella di tutta una serie di altre sfortunate donne della loro vita, confuse nell’anonimato di un semplice orecchio che ascolta. In pratica cerco di essere importante per uomini a cui importa solo di se stessi, e così i vuoti emotivi che tento di colmare diventano voragini.

Se avessi la soluzione per disinnescare la dinamica avrei una giacca fucsia sulla quarta di copertina di una decina di bestseller in vetrina da Feltrinelli, invece sono qui vestita come Manuel Agnelli in una stanza che sembra la grotta di Bin Laden, a chiedermi com’è che cerchiamo sempre negli altri quello che solo noi possiamo darci.

L’errore che continuo a ripetere è quello di pensare che l’amore e le attenzioni di qualcuno possano procurarmi quel valore che sento mancare. Sono io che mi vedo mediocre, mi giudico carina ma non bella, mi trovo intelligente ma non geniale. Sono io che mi sminuisco e poi spero che arrivi qualcuno a convincermi che sono ganzissima, annullandomi nel tentativo di dimostrare che lo sono davvero. Le persone che ho frequentato in questo mezzo 2022 hanno conosciuto una versione condiscendente di me, a cui ho smussato certi angoli di insofferenza ed egoismo per apparire inconsciamente più indispensabile ai loro occhi. Non sono più disposta a farlo: voglio essere me stessa anche quando la verità è che mi sono stufata di essere il Telefono Amico. Voglio prendermi la libertà di non rispondere e quella di sfogarmi quando ne sento il bisogno; voglio che accoglienza e consolazione siano reciproche e non dovute, che le mie sofferenze vengano riconosciute e considerate; voglio essere la principessa del buongiorno e non la millesima sostituta di mamma.

E se non troverò la mia metà NON patologica pazienza: mi farò una foto allo specchio con la fascia di Miss Zuccherino e la metterò nella quarta di copertina di questo blog.

Bella (la) presenza

Ventiquattro mesi fa i social sembravano l’unica salvezza da una vita da reclusi fatta di lievito e serie tv, oggi penso di cancellare i miei profili un giorno sì e l’altro pure. Con una mossa da boomer mi lamenterò del fatto che Facebook è pieno di boomer: gente che si sente libera di commentare qualsiasi cosa (nella vita reale buttereste mai una frase misogina in un dialogo fra altre persone?), che pontifica di argomenti che non conosce (nella vita reale vi mettereste mai a discutere la diagnosi del dentista?), e infine i miei preferiti, quelli che non escono di casa dagli anni Settanta ma “Bologna non è più quella di una volta” o “mancano gli eventi culturali”, che se lo faceste nella vita reale vi darei una sprangata di traverso che vi spaccherei il naso e i denti in una botta sola. Altro che eventi culturali.

I social sono diventati la comfort zone dei disadattati, la capanna della proverbiale sindrome, il rifugio di chi è più bravo con i tasti che con la voce, la vetrina di chi non riesce a vedere oltre il proprio negozietto, allestito ad hoc per attirare clienti con la medesima patologia: la paura di vivere. Il tutto aggravato da due anni di pandemia a lockdown alternato, che hanno fornito ai misantropi la prova provata che si può fare: si può sopravvivere tra quattro mura facendo il pane e l’abbonamento a Netflix, si può mantenere un rapporto dialettico con la ‘propria comunità’ sputando sentenze sotto ai loro post, si può persino amoreggiare, purché – fermi tutti – ci si mantenga al riparo dietro allo schermo deformante di un’app per incontri.

Tanto poi cosa succede? Se ti faccio incazzare cosa mi fai? Se sparisco dalla tua bolla mi vieni a cercare nel World Wide Web? Mandi una denunzia al mio indirizzo ip? Chiami la polizia postale degli stronzi? Mi lasci una brutta recensione su dickadvisor.com? Non ci sono conseguenze all’inadeguatezza virtuale, solo un po’ di pena per chi annaspa in una manciata di relazioni sintetiche e si sente soffocare dalla realtà della carne.

Sorrido pensando a come un tempo gli annunci di lavoro contenessero quasi sempre un paio di termini che oggi scatenerebbero crociate femministe e gare di lancio dell’hashtag: “Bella presenza”. Perché raga, chattare è divertente, i vocali (se non superano il minuto) sono pure intriganti, carini gli emoticon, dolcissime le video serenate, ma ve lo ricordate vagamente com’era tenersi per mano? Avete qualche reminiscenza di quanto fosse confortante abbracciarsi, annusarsi, vedere un sorriso trasformare una faccia? Non era splendidamente spaventoso guardarsi negli occhi prima di un bacio? La bella presenza / il bello della presenza.

Non mi vergogno di niente dagli anni Novanta, di certo non ho paura di ammettere che anche io ho dato il mio contributo alla scienza dei casi umani virtual edition. Complice la serie di sfighe che mi hanno costretta a letto per quattro dei cinque mesi di questo 2022, ho interagito decisamente più sui social di quanto la coda di una pandemia e l’essere costretta a letto a casa dei miei mi abbiano permesso di fare live. Poi ad un certo punto sono uscita. Ho zoppicato verso il pub dove nessuno sa cosa sia Internet e quindi da mesi si chiedevano che fine avessi fatto; ho barcollato a qualche concerto, godendomi dal divanetto l’emozione – per me insostituibile – della musica che si crea in un istante preciso; ho messo le mie mani (gelide) sul viso di un uomo prima di baciarlo; ho riabbracciato i miei colleghi, tenuto per mano mia nipote, sentito il profumo dell’erba e dei fiori di campo. Ho goduto dell’essere viva con tutti i sensi a disposizione.

L’altra sera un amico (conosciuto ad un matrimonio quattro anni fa e ovviamente mai più visto dal vivo) mi descriveva le potenzialità del “metaverso”, ennesima definizione di un universo parallelo tridimensionale, in cui gli esseri umani possono interagire attraverso avatar di se stessi. Lui immaginava con entusiasmo di potersi godere una (pseudo) vita da ventenne anche a 80 anni, io visualizzavo un futuro fatto di corpi chiusi in celle frigorifere a “sognare” di esistere, relazionarsi, fare sesso con corpi perfetti scelti dallo shop online, regalarsi fiori sintetici e respirare aria pixelata.

Quanta paura può fare la realtà per decidere di non volerla più vivere? Quanto spaventa l’idea di essere rifiutati in presenza per convincere a rintanarsi sotto il piumone della virtualità?

Il mio corpo non mi fa impazzire: a volte lo odio profondamente, altre volte lo amo con tenerezza materna. Ma è il MIO corpo e mi rappresenta, è la proiezione esteriore di quello che ho dentro, della mia pigrizia e della mia dolcezza, delle contraddizioni, degli sbagli. Il mio corpo porta i tatuaggi delle cose che ho amato in questa vita, mostra i segni dei traumi, la pesantezza dei dolori, una dolcezza che tengo nascosta. Non cambierei le mie cosce da pallavolista con quelle di un angelo di Victoria’s Secret se il prezzo da pagare fosse sopravvivere alla mia carne nel metaverso. Non rinuncerei ai miei difetti per montare una vetrina Instagram di apparenze se non potessi più sentirmi desiderata così come sono in un abbraccio reale.

Non è l’approvazione degli altri a darmi valore, anzi: la volta in cui ho ricevuto un due di picche mi sono sentita ganzissima per il solo fatto di aver avuto il coraggio di provarci, rigorosamente dal vivo. Non sono i like a renderci brillanti, non sono le chat a farci innamorare, non siamo foto dentro ai telefonini: siamo carne, pelle, odore, sapore. Siamo una voce, uno sguardo, un modo di camminare. Meritiamo qualcosa di più di una serie di messaggi senza tono e di immagini senza dimensione, meritiamo almeno di guardarvi negli occhi davanti a una birra al pub, dove la vita è quella vera perché quasi nessuno sa cosa siano i social. Beata ignoranza e bella presenza.

Caso (umano) risolto

Ci sono momenti in cui capisco come si sente un attore di Grey’s Anatomy quando gli consegnano un nuovo copione. La (pacata) reazione dev’essere più o meno “Ma come stracazzo è possibile, raga? Ma ANCORA? Ancora la stessa, stupidissima minchiata che il mio personaggio ha fatto in circa 469 episodi delle 167 stagioni andate in onda?”. La mia vita è un’eterna puntata di un medical drama americano, in cui la protagonista non impara mai dagli errori commessi nelle mille puntate precedenti. Con la banale differenza che nella mia grama esistenza non c’è manco un Patrick Dempsey della Cirenaica con cui consolarsi. 

Sono riuscita nell’ardua impresa di farmi ghostare di nuovo. Mentre ero sdraiata con la gamba rotta in scarico e un rosario di oppioidi al collo, mi sono lasciata intortare dal caso umano di turno, che mi ha, nell’ordine, contattata-corteggiata-chiesto il numero-invitata ad uscire-confessato di avere un debole per me da tempo-trombata-lusingata-esortata a pisciare sul (mio?) territorio, per poi sparire nel nulla in una tiepida mattina di maggio, mentre zoppicavo ignara nel reparto ortofrutta della Coop di San Ruffillo. 

Been there, done that. Nella puntata precedente di Fede’s Anatomy la storia era stata decisamente più lunga e intensa, io ero una persona decisamente più cretina e ingenua, e così avevo passato parecchi mesi a imbottirmi di fiori di Bach e piangere disperata, perché chissà cos’avevo fatto di sbagliato per MERITARE di essere scaraventata nell’oblio, mentre sorridevo dal finestrino dall’auto in corsa dell’ammmore. Questa volta non ho versato una lacrima. Ho lasciato passare i primi 4 o 5 giorni di sbigottimento, ne ho passati altri 3 a rimuginare. Ora sono incazzatissima con me stessa per aver speso quelle 72 ore a mettere in dubbio il mio valore, di fronte ad un uomo così egocentrico e infantile da non avere nemmeno il coraggio di dire a voce alta che non ha voglia di frequentarmi.

Il problema dell’essere ghostati è che in automatico si cerca (in noi) una ragione valida che tappi con forza il senso di vuoto lasciato dalla sparizione improvvisa, quella ragione che il fantasma non ha ritenuto fosse il caso di dare. La verità è che un gesto così vile e irrispettoso non ha mai motivazioni sufficienti: una persona che si comporta in questo modo non merita che si perda tempo a domandarsi perché. Le vie dei casi umani sono infinite, conta soltanto che corrano parallele alla mia, e – salvo fermarsi per qualche rapido picnic panoramico – proseguano nella loro direzione senza incontrarsi mai più.

Quando ero bambina avevo un debole per un ragazzino del paese più grande di me: era sempre sorridente, con un’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. A 20 anni stava con la ragazza più bella e stilosa che io avessi mai visto; avrei voluto essere lei per limonare con lui diventare quel tipo di donna così piena di personalità e carattere da ammaliare un uomo tanto intelligente e inarrivabile e limonare con lui. L’altra sera – in una pausa tra un caso umano e l’altro – l’ho incontrato per caso. È sempre sorridente, con quell’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. Abbiamo chiacchierato un po’ mentre mi guardava fisso negli occhi, che in quel momento sentivo fin troppo grandi. Poi, con un filo di imbarazzo, mi ha detto “Ti seguo sempre, mi fai ridere un sacco”. Se n’è andato voltandosi un’ultima volta per sorridermi e lasciarmi lì, a fissare il fondo della birra media e chiedermi per quale cazzo di motivo ho sempre pensato di non meritare uno come lui. Uno che mi guardi negli occhi mentre mi parla, che sia capace di fare un complimento a voce alta, che sia interessante, brillante, bello e abbastanza adulto da non doversi nascondere dietro lo schermo del telefonino, così coraggioso da girarsi a guardarmi mentre mi volta le spalle.

La codarda mi sa che sono io. Sono la leonessa da tastiera che ha deciso di rifugiarsi nella comfort zone di casi umani conclamati con cui non è stato mai necessario mettersi in discussione. Mi sono svalutata e scontata, buttata al collo di gente che avrebbe dovuto gioire per avermi conosciuta e frequentata, e invece si è permessa di sparire nel nulla, instillando in me – anche solo per un secondo – quel senso di umiliazione da rifiuto adolescenziale. La festa delle medie è finita e io non sono più una bambina in costante ammirazione degli altri; ora sono la donna da ammirare perché piena di personalità e carattere, e cerco un uomo non troppo concentrato su se stesso da accorgersene.

E se picnic deve essere, che sia almeno in prato bellissimo vista stronzi.

Boulevard Nostalgia

Oggi in piscina – oltre ad aver scoperto che nuoto molto più velocemente io con una gamba distrutta delle vecchie che si ostinano ad occupare la corsia VELOCE – ho ascoltato la playlist da boomer che mi sono fatta per ricordare come si stava meglio quando si stava meglio, e che ho intitolato “Boulevard Nostalgia” (e chi coglie la cit godrebbe sicuramente anche del mix).

Niente come la musica è capace di riportarmi emotivamente ad un momento preciso: ci sono canzoni che ho smesso di ascoltare con frequenza per non compromettere il ricordo a cui sono fissate. Così, tra una bracciata e l’altra (le ho doppiate tutte, ste vecchie), tra un pezzo dei Blink-182 e uno dei Jimmy Eat World, ho rivissuto i mille concerti, le grigliate, le serate in cui ci siamo dovuti fermare a far sboccare qualcuno a bordo strada e quelle in cui abbiamo rinunciato e ci siamo messi a dormire all’autogrill di Imola. Ho riso sott’acqua ripensando a quella volta in cui appena sveglia ho trovato Sandro con addosso la mia giacca di tartan e gli occhiali gialli seduto al piano a suonare Elton John, al giorno in cui Salo è ruzzolato giù dalla collina del Parco Nord durante il live dei No Use For a Name, alla seratona dei Too Many Djs in cui nessuno si è ricordato di rimanere sobrio per guidare il furgone, a quante volte ho costretto il mio miglior amico a cantarmi “I miss you” imitando le voci e gli accenti di Tom DeLonge e Mark Hoppus. E poi i festival, i tatuaggi, i concerti, fare i baristi in tutti i locali, fare l’alba tutte le sere, piangere, ridere, parcheggiare la 126 gialla nei luoghi più impensati. Non sarei quella che sono se non avessi avuto quelle cassette dei Green Day che nove volte su dieci si incastravano nell’autoradio, e che comunque a malapena riuscivo a sentire a causa del rumore assordante che faceva il motore.

Sono un paio di mesi che ripenso a chi sono. Non so se sia dovuto al fatto che sono anch’io una vecchia di merda che crede di nuotare veloce, a tutto quel tempo a disposizione per guardare il soffitto e rimuginare, a questo anno strambo appena iniziato in cui ho già rischiato di morire un paio di volte.

Prima di essere travolta da un insolito destino ho conosciuto un ragazzo che vive e ragiona con dinamiche completamente avulse dalla consuetudine e dalle aspettative. Ovviamente – non essendo lui un caso umano – non abbiamo nessuna relazione sentimentale, non so nemmeno se possiamo dire di essere amici, o se esiste un’etichetta per tutti i barattoli relazionali che questa pandemia ha riempito, ma credo comunque che le lunghe settimane isolata a parlare con lui siano state per me illuminanti. Lui è se stesso sempre. Non ha filtri, non ha vergogna: ride, piange, si incazza per delle stronzate, a volte è un bambino, a volte super saggio, lo appassionano un sacco di cose diverse e non si imbarazza nemmeno quando sono antitetiche tra loro. E a me piace. Sono rapita da questa totale demolizione di ogni modello, l’anarchia rispetto a interazioni consolidate, il fregarsene delle coerenza perfezionistica dei personaggi costruiti. Si può essere se stessi. Sempre. Lui lo fa.

Gli ultimi anni li ho spesi a cercare di essere qualcun altro, ho fatto di tutto per appartenere a gruppi dai quali mi sentivo esclusa, ho cercato di adattarmi, di misurarmi, di censurarmi quando le mie richieste mi sembravano illegittime. Mi sono vergognata dei miei desideri, qualche volta anche della mia casa, del mio cane, della mia famiglia, mi sono sentita spesso non all’altezza del ruolo in cui mi ero ficcata da sola. Ho scelto di accettare relazioni in cui io non ero neanche considerata, a piangere sparizioni, ad accontentarmi, svilirmi, sentirmi insicura perché privata di qualsiasi attenzione, a mettere da parte me per fare spazio all’ego smisurato di qualcun altro. Si può essere se stessi. Sempre. Lui lo fa.

Nel limbo tra l’adolescenza selvaggia e la saggezza della mezza età mi sono fatta un sacco di male per riuscire a ricordarmi chi ero e tornare a volermi bene. È bizzarro che succeda ora, in uno dei periodi apparentemente più bui e difficili della mia esistenza, ma forse questo è il proverbiale fondo da cui comincio a risalire. Sono felice di essermi ritrovata, un po’ ammaccata ma ancora felicemente polemica e testarda come quella ragazzina che ascoltava i Social Distortion su una 126 gialla. E se vi va bene così ok, altrimenti spostatevi che ho delle vecchie da superare.

Teladicoiolaverita.com

La preziosa filosofia del cazzomene – che ha guidato la mia esistenza so far come un’oasi nella nebbia delle responsabilità – si è un po’ rovinata strisciando sull’asfalto di porta San Donato insieme alle mie vertebre. Diciamo che perdere d’un tratto la propria autonomia, trovarsi in ospedale con un infermiere di 25 anni che ti lava con una spugna e trascorrere mesi a dover chiedere aiuto per qualsiasi cosa sono ragioni abbastanza convincenti per fermarsi un attimo a riflettere su cosa cazzo sto facendo della mia vita. Mentre io sono qua dentro a piagnucolare perché non posso affrontare il ciottolato del Pratello in stampelle, là fuori c’è la guerra, la pandemia, la gente che mette le ciglia ai fari delle auto e quelli che “Stefano Cucchi era un tossico e meritava di morire”. Sopravvivere è stato figo, è sul vivere che faccio un po’ fatica.

La mia voglia di esistere (ma soprattutto di bere) oscilla tra la drammaticità della situazione mondiale e il ‘carpediemismo’ che ti coglie quando rischi di schiattare un paio di volte in un mese: non faccio altro che sognarmi al sole, felice, magra, sorridente, mentre mangio circondata dai miei amici, magra, con una birra in mano, a fare le solite gag con la balotta, magra. Peccato solo che la mia già notoriamente bassissima soglia di tolleranza nei confronti dell’umanità sia passata in questi mesi dal cancellare un contatto al primo congiuntivo sbagliato a “non ti azzardare a rivolgermi la parola”.

Due anni di pandemia non hanno agevolato chi come me aveva fondato la propria esistenza sulla socialità: 24 mesi di uscite di casa soltanto per andare al lavoro e rientrare attraversando una città deserta, cenare in solitudine e guardare Netflix col cervello sul comodino; due anni di incontri e flirt virtuali consumati dal conoscersi troppo senza essersi mai annusati; due compleanni a brindare su zoom con le mie amiche sparse per il mondo. Ci si abitua a tutto, anche alla noia. Così, adesso che il covid non fa più così paura, nessuno di noi riesce a stare sveglio oltre le 11 di sera, chi ce lo fa fare di uscire dalla capanna, c’è una serie da finire, una cena solitaria a cui partecipare, un tizio nuovo con cui chattare senza troppo entusiasmo. Chi era già abituato a vivere nel celeberrimo bilocale vista stronzi (che uno specialista chiamerebbe comfort zone) ora ci ha fatto il nido con rametti di tre “s”: streaming, smartworking e sexting. Figuriamoci io che mi sono pure tutta rotta.

Mai come nell’ultimo periodo ho capito che il tempo a disposizione non è infinito: è chiuso in una clessidra già capovolta e dipende solo da me se sguazzare nella sabbia che mi resta e costruire qualche castello, oppure continuare a tirarmela negli occhi per non vedere con chiarezza le cazzate che mi ostino a fare. Ho davvero voglia di continuare a litigare sui social con casi umani che non riescono mai una volta a mettersi dalla parte giusta della storia? Sono ancora convinta che la mia felicità sia in un mestiere sottopagato, sottostimato, sepolto da una coltre di siti acchiapaclick e da una lunga serie di fake news esilaranti da leggere su teladicoiolaverita.com. E – sentimentalmente speaking – penso ancora che rispondere alle avance di uomini sposati che giurano di puntare solo e unicamente alla mia amicizia sia una buona idea? Ho intenzione di continuare a dedicare gli ultimi granelli di sabbia in cui la quarta di reggiseno si oppone con fatica alla forza di gravità a gente che mi rende insicura sparendo per settimane? Davvero ho voglia di relazionarmi con cinquantenni a cui non posso mai dire quello che provo per paura che scappino impauriti tra le braccia di mamma?

Basta raga, io non ho più tempo per oppormi. Siate tranquillamente no vax, no pass, no cazz, filo Putin, nazi cattolici. Informatevi serenamente su quellochenontidicono.dev, custodite la verità che più vi piace. E poi tradite le vostre mogli raccontandovi che era solo un’amicizia, ghostate pure la gente, costringete le donne ad essere algide e stronze per paura di perdervi. Io sono stremata da questa mia insensata battaglia per cambiare gli altri. Facciamo una prova: voi restate come siete e cambio io. La smetto di fare polemiche, di spiegare, di litigare, di far cadere le mie idee in un abisso di ignoranza. La finisco anche di aspettare, di elemosinare, di proiettare la comprensione che vorrei su egocentrismo e immaturità. Invece di fare tutta questa fatica per nuotare contro corrente, me ne starò ferma sulla riva del fiume a mettere in piedi castelli con la sabbia che resta nella mia clessidra. Perché stavolta l’infantile convinzione di essere invincibile si è spezzata con le mie ossa, e mi sono resa conto che nel giorno della fine non solo non serve l’inglese, ma nemmeno la quantità di volte in cui hai avuto ragione, o il numero di stronzi a cui hai fatto cambiare idea: serve solo il pensiero della felicità che hai cercato dentro e costruito apposta per te, e quella resiste a tutte le tempeste.

Gimme oppioidi I am pretty

Tornare a stare con i miei dopo 25 anni è un po’ come saltare 56 sedute di psicoterapia e passare direttamente dalla stretta di mano a mangiare penne al sugo a tavola con le mie nevrosi (penne di cui – ovviamente – mia madre conterà le calorie).

Due settimane fa stavo andando al lavoro in scooter, una daltonica in auto ha confuso il semaforo rosso, ha attraversato la carreggiata e mi ha centrata in pieno, spedendomi a trascorrere i successivi due mesi a casa con qualcuno che possa fare per me quel che io non riesco a fare da sola: tutto.

La prima settimana l’ho passata in ospedale, in stanza con la signora Michelina che mi illustrava i suoi centrini in molisano stretto e accendeva Canale 5 alle 6.30 per spegnerlo alle 22.30 (se esiste un inferno me lo immagino composto da: incomprensione – dolore fisico – Barbara D’Urso a volume da rave).

La seconda settimana l’ho passata in uno stato di semi-coscienza, in cui il rincoglionimento da oppioidi si alternava a feroci momenti di rabbia. Di questa fase ho vaghi ricordi, addolciti dalla bambagia degli antidolorifici e dalle visite e telefonate degli amici, di cui purtroppo ho pochissima memoria.

La terza settimana comincia ora, con il sole fuori dalla finestra della mia cameretta di bambina, rimasta intonsa mentre io attraversavo una vita; solo gli angoli arricciati delle foto attaccate con lo scotch alla scrivania e giocattoli delle mie nipoti riposti tutt’intorno a me: Madonna della sfiga e dei canali Mediaset.

Insieme alla stanza è rimasto immutato anche il comportamento dei miei genitori, acuito dalla vecchiaia e arricciato su ste stesso come le foto dei miei innumerevoli inter-rail. Mia madre è da sempre ossessionata dalla superficie. Le persone si dividono in belle e brutte: le belle sono magre, le brutte sono dal ricovero per anoressia in su. Ultimamente ho visto lievi miglioramenti quando l’ho sentita dire “Sarebbe una bella ragazza, peccato sia così grassa”, mentre guardava un’esibizione di Gaia, cantante italo-brasiliana poco più che ventenne, taglia 42. Le cose si dividono in sporche e pulite: le sporche sono tutte, le pulite sono quelle che escono dalle tre lavatrici fisse al giorno, dalla rivoluzione architettonica quotidiana della casa, dalla disinfezione ossessiva di angoli, oggetti, parti del corpo. Il giorno dopo l’incidente ha recuperato i miei effetti personali, e ha lavato IL CASCO. Ha disinfettato, pulito e lucidato quello che non solo era la prova di un incidente stradale, ma un oggetto che probabilmente non utilizzerò più nella vita, e soprattutto: chi mai laverebbe un casco? Nei rari momenti in cui non è dedita a siflarmi il pigiama mentre dormo (indossato fresco di bucato la mattina stessa), passa il tempo a programmare i pasti, in cui mette in tavola una quantità di cibo sufficiente a sfamare la popolazione del Lussemburgo, per poi cazziarmi qualsiasi cosa io tocchi: “Quella lì fa ingrassare eh”, mi fa notare mentre inforco la bietola al vapore.

Mio padre è il classico bullo di quartiere che ha sempre risolto tutto prendendo a pugni la gente. “Se questo incidente fosse successo dieci anni fa gliel’avrei fatta vedere io alla signora”, per fortuna è capitato adesso e il buon avvocato si pagherà il riscaldamento della piscina con la mia percentuale, limitandosi a mandare qualche mail all’assicurazione. Il bullismo di mio padre diventa ingestibile in compagnia, quando si trasforma in giullare che tenta di far ridere umiliando i commensali. Durante le recenti visite dei miei amici, ha messo in scena tutto il repertorio, suggerendo che mi sarei data varie martellate da sola per mettere in mostra i lividi, che starei facendo la vittima per una “piccola caduta dal motorino”, invece lui sì che è stato male spezzandosi una gamba durante una gara di motocross, e poi sembro confusa ma in realtà guardo la tv tutto il giorno, e così via, in una escalation di sminuimento che non interessa (più) né a me né tantomeno a persone che mi danno così tanto valore da venire a trovarmi fino qui, in questo paesino dove giornate tutte uguali sono scandite dalle lavatrici di mia madre e dal profumo di disinfettante.

Ed eccomi qui, seduta a tavola con l’origine di ogni mia più recondita paranoia. Io che mi vanto della mia indipendenza e autonomia, che ho sempre faticato a chiedere aiuto agli altri e ad appoggiarmi a qualcuno, sono qui a dover chiedere a mia madre se per favore può versarmi un bicchiere d’acqua e a mio padre se può sorreggermi mentre mi alzo dal letto. Io che vivo completamente sola da otto anni, sono stata investita e catapultata nella vita di due 77enni, a cui ho stravolto le giornate e le abitudini, a cui ho chiesto lo sforzo di accogliermi e la fatica di accudirmi: un’adulta immobilizzata nella stanza dei ricordi di bambina.

Nella mia esistenza gli eventi si incontrano in quel brevissimo istante di raccordo in cui mi lasciano rotolare da un estremo all’altro. Ci sono state due settimane di “vita vera” tra il mese di isolamento totale a causa del Covid e la convivenza forzata a causa dell’incidente: quindici giorni in cui ho tentato di rimettermi in pari con una quotidianità che ciclicamente viene stravolta, con il lavoro che cambia annualmente, con potenziali relazioni che riesco sempre a sabotare. Quando ho raccontato a Fiammetta dell’incidente e delle conseguenze mi ha detto: “Fede, ora con il gambone non potrai scappare”. Forse questo chiodo nell’osso è il modo (di merda) che ha la vita di dirmi “Adesso basta, adesso ti fermi”?

Sono una donna che ha paura di diventare adulta imprigionata nella mia infanzia, dove nulla è cambiato se non la consapevolezza delle cose che succedono intorno. Sono qui per dare un senso alle mie insicurezze nascoste dietro la faccia di bronzo, alle mie dipendenze emotive barricate dietro a muri di indipendenza. Ed è qui, nella stanzetta in cui dormo circondata dalle barbie, che ho riconosciuto la mia incapacità di sentirmi vittima anche quando sono oggettivamente la vittima, il non vedermi mai abbastanza bella da volermi bene, il sentirmi sempre in difetto in una casa sempre troppo sporca e disordinata. Credo che il chiodo nell’osso che mi ha piantata qui serva a farmi capire che ora devo essere io a stabilire per me stessa il livello di accettabilità delle cose, senza lasciare che a darmi valore sia la visione deforme di qualcun altro.