Se non esistesse l’amore non si farebbe Sanremo. Le canzoni parlerebbero di bonifici mancati e ferie mai godute, le poesie sarebbero dedicate ai chili persi, le opere d’arte ritrarrebbero soltanto cani, gatti e pizze al forno. L’amore è l’essenza del dolore e della felicità, è il cuore spezzato e quello impazzito, è la fonte delle lacrime più amare e magnete dei sorrisi più grandi, è il vuoto cosmico e l’universo infinito. Un sentimento estremo, un po’ come il mio carattere.
Da anni ormai non vivo l’amore per un uomo. Lo provo per il mio cane, i miei amici, la mia casa, le mie playlist spotify le lasagne vegane. Ma per gli uomini no, per loro ho provato negli ultimi tempi una varietà di sentimenti diversi, nessuno dei quali estremo come l’amore: attrazione fisica, riempimento di vuoti emotivi, affinità intellettuale, sollievo alla solitudine, curiosità. Qualche volta ho anche piagnucolato. Altre volte ho pensato di essere disposta a farmi investire da un autobus a due piani come in una canzone degli Smiths.
Ho passato anni a uscire con dei casi umani e interrogarmi su questo blog sul perché uscivo solo con dei casi umani. Un giorno, qualche mese fa, ho smesso di chiedermi perché incontravo solo persone non amabili e mi sono chiesta quando amabile fossi io. Beh, non uscirei con me stessa nemmeno se me la dessi la prima sera.

A forza di smussare gli angoli sono diventata tonda come le case nelle isole greche: mi sono allontanata così tanto dalla mia forma originale che non ricordo più com’era essere me stessa, bianca e quadrata. Il mio carattere indomabile e fumantino è stato annacquato dalla volontà di compiacere gli altri, la mia dolcezza cristallina si è impolverata per la paura che certi dolori pungenti potessero annichilirmi di nuovo, la mia autenticità è rimasta schiacciata da un cumulo di cose che è giusto fare, frasi che è giusto dire, versioni di me che è giusto essere, secondo un algoritmo interiore movimentato da traumi e paure.
Qualche mese fa mi sono riconosciuta molto poco amabile e ho cominciato a scavare tra le macerie stratificate delle mie mille vite, sperando di trovare resti intatti dell’originale. È stata dura come spostare montagne a mani nude. È stato come spogliarsi in pubblico di un vestito pesantissimo, e restare lì, nuda e infreddolita, a guardare la gente passarmi davanti senza capire, qualche volta senza nemmeno farsi domande. Qualcuno si è fermato e mi ha messo una giacchetta sulle spalle, altri mi hanno allungato un bicchier d’acqua, ma la parte più difficile l’ho fatta io, cercando di capire cosa mettermi addosso e dove andare.
Il cambiamento non è come lo immaginiamo, non ci si sveglia una mattina diversi, ci si sveglia ogni giorno leggermente più consapevoli. È un po’ come la dieta: non diventi improvvisamente Kate Moss, ma passi con calma e sacrificio dal telaio di Gegia a quello di Rihanna incinta di 8 mesi, fino a diventare la Luisa Ranieri che ti sei sempre sentita dentro.
Rinunciando a dolci e carboidrati, ma anche a compromessi e relazioni tossiche, mi sono parecchio alleggerita l’esistenza, e forse ora una chance me la darei: mi porterei a bere una birra e mi farei un sacco di domande, mi guarderei commuovermi per le stronzate e infervorarmi per le cose in cui credo, mi farei una carezza e mi stupirei del mio imbarazzo, e forse mi manderei un messaggio per dirmi che è stata una bellissima serata e che mi auguro di riuscire a trovarla, la mia strada.