Se non esistesse l’amore non si farebbe Sanremo. Le canzoni parlerebbero di bonifici mancati e ferie mai godute, le poesie sarebbero dedicate ai chili persi, le opere d’arte ritrarrebbero soltanto cani, gatti e pizze al forno. L’amore è l’essenza del dolore e della felicità, è il cuore spezzato e quello impazzito, è la fonte delle lacrime più amare e magnete dei sorrisi più grandi, è il vuoto cosmico e l’universo infinito. Un sentimento estremo, un po’ come il mio carattere.
Da anni ormai non vivo l’amore per un uomo. Lo provo per il mio cane, i miei amici, la mia casa, le mie playlist spotify le lasagne vegane. Ma per gli uomini no, per loro ho provato negli ultimi tempi una varietà di sentimenti diversi, nessuno dei quali estremo come l’amore: attrazione fisica, riempimento di vuoti emotivi, affinità intellettuale, sollievo alla solitudine, curiosità. Qualche volta ho anche piagnucolato. Altre volte ho pensato di essere disposta a farmi investire da un autobus a due piani come in una canzone degli Smiths.
Ho passato anni a uscire con dei casi umani e interrogarmi su questo blog sul perché uscivo solo con dei casi umani. Un giorno, qualche mese fa, ho smesso di chiedermi perché incontravo solo persone non amabili e mi sono chiesta quando amabile fossi io. Beh, non uscirei con me stessa nemmeno se me la dessi la prima sera.
A forza di smussare gli angoli sono diventata tonda come le case nelle isole greche: mi sono allontanata così tanto dalla mia forma originale che non ricordo più com’era essere me stessa, bianca e quadrata. Il mio carattere indomabile e fumantino è stato annacquato dalla volontà di compiacere gli altri, la mia dolcezza cristallina si è impolverata per la paura che certi dolori pungenti potessero annichilirmi di nuovo, la mia autenticità è rimasta schiacciata da un cumulo di cose che è giusto fare, frasi che è giusto dire, versioni di me che è giusto essere, secondo un algoritmo interiore movimentato da traumi e paure.
Qualche mese fa mi sono riconosciuta molto poco amabile e ho cominciato a scavare tra le macerie stratificate delle mie mille vite, sperando di trovare resti intatti dell’originale. È stata dura come spostare montagne a mani nude. È stato come spogliarsi in pubblico di un vestito pesantissimo, e restare lì, nuda e infreddolita, a guardare la gente passarmi davanti senza capire, qualche volta senza nemmeno farsi domande. Qualcuno si è fermato e mi ha messo una giacchetta sulle spalle, altri mi hanno allungato un bicchier d’acqua, ma la parte più difficile l’ho fatta io, cercando di capire cosa mettermi addosso e dove andare.
Il cambiamento non è come lo immaginiamo, non ci si sveglia una mattina diversi, ci si sveglia ogni giorno leggermente più consapevoli. È un po’ come la dieta: non diventi improvvisamente Kate Moss, ma passi con calma e sacrificio dal telaio di Gegia a quello di Rihanna incinta di 8 mesi, fino a diventare la Luisa Ranieri che ti sei sempre sentita dentro.
Rinunciando a dolci e carboidrati, ma anche a compromessi e relazioni tossiche, mi sono parecchio alleggerita l’esistenza, e forse ora una chance me la darei: mi porterei a bere una birra e mi farei un sacco di domande, mi guarderei commuovermi per le stronzate e infervorarmi per le cose in cui credo, mi farei una carezza e mi stupirei del mio imbarazzo, e forse mi manderei un messaggio per dirmi che è stata una bellissima serata e che mi auguro di riuscire a trovarla, la mia strada.
Mi sono guardata intorno alla ricerca di un segno di famigliarità, fino a quando una chitarra elettrica e un paio di amplificatori mi hanno confermato di essere nel posto giusto. Rincuorata, mi sono lasciata sprofondare nella poltrona e ho messo a fuoco una collezione di lamette vintage incorniciate e appese al muro. Bizzarra scelta per la sala d’aspetto di uno psicologo.
Da piccola pensavo si chiamasse SALA DA TESA, e in effetti sarebbe adatto.
“È la prima volta per me” – “E perché hai deciso di venire?”. Ho aperto la bocca e non è uscito niente, la gola mi si è stretta in una morsa, le lacrime hanno cominciato a scendere contro la mia volontà di trattenerle, e lui – come nel più classico dei film americani – mi ha allungato una scatola di kleenex. Alla fine del mio racconto ha detto: “Mi dispiace ma non posso aiutarti”. Non ho nevrosi da interrompere o fantasie da decostruire: ho solo una storia di merda dalla quale devo imparare a prendere le distanze. “In questo sì, posso aiutarti con un paio di sedute”.
Al secondo incontro ha parlato prevalentemente lui. Ha fatto una panoramica della filosofia greca, mi ha descritto le teorie di Spinoza sul conatus e la sfera del diritto, ha detto che sono una grande comunicatrice, che ascolto su due livelli di comprensione, che non è cosa da tutti, poi ha chiuso con una frase che mi ha molto colpita: “Quello che ti è successo ti ha distrutto il paradiso. Nella tua situazione un adulto avrebbe detto ok, scopro oggi che il mondo è fatto anche di dolore, menzogne, tradimenti e inganni: ne prendo atto e vado avanti. Tu, in maniera infantile, hai detto ok, se il mondo è fatto di dolore, menzogne, tradimenti e inganni, io non voglio vivere”.
Nella terza seduta ha parlato prevalentemente lui. Ha fatto una panoramica della psicologia moderna, mi ha descritto gli stati dell’io, ha detto che sono troppo poco spietata, troppo poco vendicativa, mi faccio trattare come un oggetto, non mi fido abbastanza di me stessa, ma sono cambiata, ho fatto progressi enormi in sole due settimane, poi ha chiuso con una frase che mi ha molto colpita: “Quello che hai vissuto non si può cancellare, rimane. Puoi solo disegnare una nuova mappa per vivere la tua esistenza e cercare di lasciare pochissimo di te nei vecchi solchi che ti lasci alle spalle”.
In 43 anni di vita (grama) non ero mai stata da uno psicologo. Ho sempre pensato che l’intelligenza dei miei amici e gli esorcismi letterari che pratico su questo mio spazio personale sarebbero bastati a salvarmi da qualsiasi dolore. Ma una persona che non si concede mai di soffrire riesce a trovare una giustificazione anche per non accettare l’empatia di chi le sta intorno: “Dicono che ho una storia di merda perché mi vogliono bene”, “Mi compatiscono per compiacermi”, “Non vogliono vedermi stare male”. Lo psicologo, invece, non ti conosce e non gliene frega un cazzo di te, se non delle banconote che gli lasci sul tavolino tra i kleenex e l’agenda. Sentirmi dire da un professionista che ho una storia di merda è stato come avere la prova clinica che ne posso soffrire, come se il pensiero di avere una gamba rotta fosse molto meno doloroso fino alla visione di una lastra che ne testimonia la frattura. E adesso ok, puoi piangere. Per la tua gamba rotta e pure per la tua storia di merda.
Ho sempre avuto un debole per le cose piccole, per i dettagli irrilevanti, per gli esseri viventi poco considerati. Non a caso ho creato un blog in cui posto foto di cose abbandonate a terra, a cui nessun altro è solito fare caso. Da bambina mi portavo in casa di tutto: rospi, scarabei, pipistrelli, ero cresciuta insieme a un’oca di nome Quiqui e al piccione Aquilanera che – ricorda sempre mia madre – consideravo genuinamente “i miei unici amici”. Ho vissuto in case accoglienti ma minuscole, creato via via un mondo interiore pieno di eroi fantastici e cavalieri senza macchia, nel quale lentamente mi sono rifugiata al riparo da un’umanità che evidentemente mi piaceva sempre meno.
A 43 anni mi sono trovata prigioniera del mio mondo interiore. So che non si direbbe, visto il carattere espansivo e caciarone che mostro in compagnia, ma io sono il genere di persona che subisce in silenzio. Per tutta la vita ho pensato che stare nel mio fosse l’unica soluzione per tenere insieme la mia famiglia – quella biologica e quella sentimentale -, incollando i pezzi di relazioni distrutte con una colla fatta di segreti (di altri) e sensi di colpa (miei). Ma questa miscela oleosa di bugie e dolore è sempre più difficile da ingerire, e ha imputridito tutti i miei organi interni: i polmoni non respirano, lo stomaco non assimila, il cuore è moribondo.
Sono il tipo di persona che va dallo psicologo e lascia che a parlare sia prevalentemente lui. Però poi le cose che dice (e che a quanto pare io ascolto su due livelli) entrano nella carne annerita come una spada di luce (grazie Maestro Yoda) e rimescolano tra le macerie dei miei sentimenti, alla ricerca di qualche radice di speranza che abbia resistito al deserto.
Sono giorni che mi esce dalla bocca tutto quello che non ho mai detto a persone a cui pensavo di aver detto tutto; giorni in cui incontro nei luoghi più impensati persone a cui pensavo di avere tantissime cose da dire, ma una volta di fronte a me non mancava niente, era già tutto detto, alles klar. Giorni in cui le mie amiche dicono che sono simpatica anche se ho smesso di nascondere dietro il sarcasmo la mia emotività. Giorni in cui mi sento più autentica, più presente, più fedele alla me stessa che un tempo era libera da quei macigni calcificati dal silenzio. Leggera.
Certe volte il conflitto non è la cosa più dolorosa che possa capitare: sminuirsi in silenzio può essere molto più devastante. Mettere via il mio malessere in favore di un’eterna allegria di facciata mi ha resa un pupazzo inanimato, un clown incapace di innamorarsi, una bambola trafitta da ogni genere di abbandono come se fosse il primordiale. Ci sono volute tre sedute di terapia per ricordarmi del mio amore sconfinato per la natura, della mia capacità di ascolto e accoglienza, della mia innata dolcezza. Ci è voluto un sacco di coraggio per rispolverare cristalli tenuti al buio da 40 anni, e mostrarli al mondo senza curarsi troppo di chi sarebbe rimasto accecato oppure abbagliato dal loro riflesso. Ho avuto un grande aiuto ma mi sono aiutata. Ho deciso che in un mondo fatto di menzogne e tradimenti, almeno io posso essere limpida, autentica e fedele a me stessa. E sono la persona più importante per me, forse l’unica di cui aspetto di innamorarmi da una vita.
Le altre postano foto scosciate con scritto “Chi non mi ama non mi merita” e ricevono pioggia di like, manciate di richieste di amicizia e proposte galanti a profusione. Io pubblico sul blog una brillante analisi post-moderna delle carenze affettive in una società contemporanea popolata da egocentrici privi di empatia e ottengo l’approvazione di uno che utilizza lo pseudonimo Narcisista Tossico.
Vero è che la pioggia di like ha la stessa utilità del gratì, mentre un Narciso auto-proclamato è per sempre: ti ammalia nella spirale della sua parlantina ego-riferita e non ne esci nemmeno buttando già una borraccia da due litri di rescue remedy.
Con buona pace di ogni mio proposito di emancipazione dai rapporti virtuali, ho ingaggiato con lui un torneo di riflessioni sui massimi sistemi: in fondo chi sono io per sottrarmi ad una sfida in cui non si vince niente, se non una coscienza aggiuntiva a quella che già ti giudica ogni mattina nello specchio del bagno?
Ieri, ad esempio, mi ha detto che la mia vita è triste. Se questo scambio fosse avvenuto un paio d’anni fa avrei fatto un’ora di autostrada soltanto per ribaltargli addosso il tavolino con sopra spritzaperol e patatine. Ieri, invece, – mentre pucciavo le chiappe in una piscina comunale di montagna dove tutti erano sconvolti dai miei tatuaggi e dal fatto che ero arrivata in auto da sola – mi sono limitata a ribattere pacatamente che la mia esistenza non è affatto misera, anzi.
“Non importa, questa è la mia narrazione di te”, ha risposto Narcy nel tentativo di non arrivare vivo alla grigliata di ferragosto. La sua narrazione di me non è interessata alla mia versione di me, perché la sua narrazione di me è in effetti la sua versione di me, e niente – se non lui stesso – è in grado di cambiarla.
(E ora ditemi che non merito una pioggia di like anche senza foto scosciata).
Riprendiamo le cose della vita da una telecamera in soggettiva: filtriamo i ricordi nelle trame sottili della nostra memoria, osserviamo le persone da dentro a questo corpo, da dietro a questi occhi di misure e colori diversi, collegando cervelli pieni di esperienze, traumi, convizioni uniche e irripetibili. Il nostro sguardo non è mai uguale a quello di qualcun altro, la nostra opinione non aderisce mai perfettamente alla realtà che vede chi ci sta accanto e questo è il bello e il dramma dell’esistenza.
Se il RIVOLUZIONARIO concetto di unicità del pensiero non bastasse, ci si mette Dio, il Cosmo, il destino, la vita a posizionarci in ruoli sempre diversi e a volte complementari, giusto per farci riflettere su quanto siamo inconsapevoli pedine nel gioco sadico dell’esperienza.
Così in una sola epoca (nel mio caso specifico in una sola settimana) possiamo passare dall’essere innamorat* non corrispost* all’altrettanto scomoda posizione di dover dire a qualcuno che non corrispondiamo il suo amore; piangiamo il dramma del distacco totale e ci facciamo consumare dall’eventualità di alimentare l’illusione dell’altro, trattenendoci dal mandare qualunque segnale di vita; accusiamo il Narcy di turno di usare la nostra ammirazione per coltivare il proprio ego e ci aggrappiamo a rapporti senza futuro per ricavarne una dose di autostima. Di volta in volta siamo i buoni e i cattivi, interpretiamo senza troppa consapevolezza il ruolo della fidanzata amorevole e quello dell’amante spietata, siamo trafitti dal dolore e conficchiamo spade di indifferenza in un piccolo cuore di scimmia, lo stesso che anche noi qualche volta abbiamo messo sanguinante tra le mani di un noncurante cavaliere oscuro.
A questo gioco di ruolo che è la vita terrena si aggiunge la narrazione di sé, ovvero la personale percezione della nostra persona fisica e intellettuale, che disperatamente tentiamo di sottoporre agli altri, e che mai e poi mai aderirà alla loro.
Un tempo era il diario segreto a contenere le nostre più riprovevoli esperienze di vita e il racconto soggettivo di queste, oggi esiste instagram per mostrare la propria idea di estetica, facebook per ammaliare il pubblico con discorsi politici e opinioni controverse, twitter per conquistare con la simpatia, un blog dal nome cretino per chi è troppo logorroica per essere contenuta in un limite di parole.
Investiamo una grande quantità di energie nel cercare di manipolare l’opinione che gli altri hanno di noi, invece di accettarla, studiarla, ed eventualmente apprezzarne o disprezzarne il riflesso nel solito specchio del bagno. Potremmo impiegare lo stesso sforzo nel costruirci una personalità degna della nostra narrazione, e poi evitare di perdere tempo con chi ne custodisce una troppo diversa, mortificante, umiliante, incompleta, svilente.
Per questo ieri non sono salita in macchina per andare a dare una scoppola all’amico Narcy, perché sto lavorando alla mia felicità con grande impegno e sacrificio, e in questo periodo ho poca voglia di convincere gli altri che la mia versione di me sia l’unica attendibile. Lui arriverà vivo alla grigliata di ferragosto con qualcuna che vede allegra e soddisfatta, io puccerò le chiappe in una piscina comunale dove il piatto vegetariano è il panino con wurstel, aspettando un suo messaggio con la sua narrazione di me, che in fondo gli piace tanto potersi costruire.
Tra la dipendenza affettiva e la distanza emotiva corre un fiume di vocal di autoanalisi tra la mia amica Fiammetta e me, che in confronto le lettere di Jacopo Ortis sono una festa dell’amore di Cosmo. Ventuno anni e mezzo di storie personali condivise – metà esatta delle nostre vite – rimbalzano da Parigi a Bologna, afflosciandosi qualche volta contro le maglie di una bassissima rete fatta di fragilità e disistima.
Senza i miei amici starei scrivendo haiku senza senso immersa in una vasca di Xanax. Grazie a loro c’è sempre miracolosamente qualcuno che rimette ordine al caos provocato dal tornado dei miei pensieri, che poi regolarmente vomito qui, in una sorta di diario dove raccolgo quelle 3 o 4 cazzate che mi sembra di aver capito della vita, sia mai che tornino utili a qualcun altro.
Oggi è il giorno numero 3 della mia disintossicazione dalla dipendenza affettiva. Ho smesso di scambiarmi messaggini su Instagram con quello sposato, ho deciso di non scrivere su Messenger a uno che vive in un altro continente, ho finito di covare rancore e nostalgia per il tizio che mi ha ghostata, ho rinunciato a vedere l’uomo che non mi raggiunge mai, ho messo una pietra sopra alla possibilità di condividere qualcosa di più di un’amicizia con il contadino eremita che non esce dal 1984.
Diciamo che nel mio caso non è difficile rintracciare il minimo comune denominatore dei disastri sentimentali: si chiama IMPOSSIBILITÀ. Per evitare drammi e delusioni ho costruito una collana con margherite di ‘non m’ama, non m’ama’, che si sfalda in mille petali ogni volta che tento di indossarla con disinvoltura. Più un uomo è indisponibile e il nostro amore impossibile, più io mi interesso alla partita, incazzandomi poi perché non riesco mai a vincere neanche un misero set.
Le paure governano il mio inconscio e manipolano i miei incontri: mi spingono ad accettare la mediocrità, mi frenano quando rifiuto di accontentarmi, mi mostrano uno scenario in cui invecchierò sola e triste se non mi adatto ad una vita fatta di vacanze al mare, convivenza e venerdì sera liberi. Sei convinta che tutti tradiscano? Esci con uno sposato, perché se sai già che è uno stronzo infedele non potrà deluderti. Temi che un uomo possa invadere i tuoi spazi? Prenditi una sbandata per uno che vive a 5mila chilometri di distanza e vedrai che non metterà mai becco sull’arredamento di casa tua. In fondo basta poco per essere infelici.
Negli ultimi anni le mie paure si sono unite alle mie insicurezze, trasformandosi – delusione dopo delusione – in un muro altissimo che mi tiene al sicuro dal provare qualsiasi sentimento. Al riparo sotto una coltre di “sono tutti stronzi”, coperta a sua volta da un tetto di “quelli non stronzi non me li merito perché faccio schifo”, procedo inanellando prevedibili catastrofi di cui non mi godo né il bello né il cattivo tempo, tanto da qui il cielo è solo grigio e il mio elettrocardiogramma sempre piatto.
Fino a tre giorni fa. Venerdì, in una di quelle epifanie che non si sa se siano dovute ad una qualche congiunzione astrale favorevole o agli effetti postumi del rospo che leccai nel cortile della casa di campagna nel ’94, mi sono chiesta se davvero io sono fatta delle mie paure. Ho iniziato a domandarmi (e a domandare a Fiammetta in un vocal illegale da 8 minuti) se ciò che desidero coincide con quello che i traumi mi spingono a cercare, o se esiste ancora uno spazio di positività tra il mio corpo e la sagoma oscura che lo occupa, nutrita da lutti, abbandoni, mancanze e dolori.
Io voglio una relazione normale: conosci uno, ti chiede di uscire, vai a berci una birra, imbarazzo mentre ti riaccompagna all’auto, limone davanti alla panda a metano, torni a casa sorridendo per sbaglio a tutte le mignotte sui viali e aspetti un suo messaggio che sancisca la bellezza della serata. Quello che succede è invece che conosco uno, ci scriviamo per tre mesi, mi rompo le palle dei messaggini e mi presento a casa sua con la panda a metano, torno a casa fredda come il ghiaccio imprecando contro tutti i geppi che vanno ai 30 sui viali, aspetto il suo messaggio che sancisca che voleva solo scuotere un po’ la sua vita monotona, ma il messaggio neanche arriva perché è molto più facile sparire senza spiegazioni.
In questo percorso ad ostacoli (che io stessa ho piazzato) ho deciso tre giorni fa che non ho più voglia di lasciarmi governare dalle mie paure. Ho fatto un elenco di quel che desidero e deciso che non ho più intenzione di scendere a compromessi e accontentarmi di una versione tarocca dei miei obiettivi. Smetterò di frequentare il Dams se quello che voglio è fare l’avvocato, non cercherò più le mele in farmacia, non proverò a cavare il sangue dalle rape (anche se ho scoperto che dalle barbabietole si può ricavare una proteina simile all’emoglobina), non sceglierò deliberatamente di deludermi per l’ennesima volta con una prevedibile infelicità. Lascerò entrare la luce tra le fessure dei miei muri, farò crescere la parte positiva di me fino a sopraffare l’anima oscura e impaurita che mi preclude la serenità, e – cosa più importante – mi sforzerò di avere fiducia: in me, negli altri, nel futuro, nel lavoro che ho fatto fino ad oggi per avere chiaro quello che sono e quello che voglio. With a little help from my friends.
L’amore è l’incastro perfetto di due patologie psichiatriche (o anche tre o quattro eh, amici del poliamore non mi defollowate). L’equilibrio – precario ed effimero – su cui nasce la coppia è proprio lì in quella crepa tra le sicurezze della nostra infanzia, dove è cresciuta come un’erba infestante la dicotomia valore/amore.
Facile guardare gli altri annaspare in mezzo al bisogno di sentirsi utili, comodo giudicare dal proprio divano ogni genere di mania del controllo, narcisismo, spiriti di crocerossina e di patata, insicuri, complessati, Edipi, Medee, e via così nella discesa degli inferi del casumanesimo moderno. Molto meno semplice guardarsi nello specchio ondulato del bagno e darsi una spiegazione valida all’ennesimo fallimento sentimentale, ché la colpa non è mai tua, ma a pensarci bene neanche troppo il merito.
Per conquistare me – SPOILER – basta rivolgermi delle attenzioni. Io sono ero la bambina meno speciale del Paese: brava in tutto ma eccellente in nulla, carina ma non bella (anche se una volta ho vinto il concorso di Miss Zuccherino contro la mia volontà), intelligente ma non geniale, simpatica ma non serve a niente essere simpatiche a 16 anni (e pure a 43 preferirei annoverare tra le mie qualità il metabolismo veloce). Non mi drogavo, non dicevo balle, non andavo male a scuola, non avevo nemmeno troppa voglia di fidanzarmi con qualche adolescente scoordinato e col baffetto. Essere normale spesso ti rende invisibile: non brilli e non oscuri, così i tuoi scelgono di dedicarsi a tutto tranne che a te, perché tu, semplicemente, te la sai cavare da sola.
Così oggi – 43enne carina ma non bella, intelligente ma non geniale, simpatica ma abbiamo già detto dove ce la possiamo mettere la simpatia – vado neanche troppo inconsciamente alla ricerca di qualcuno che si accorga della mia presenza, che trovi speciale la mia mediocrità. Certo, sono ancora in una fase di autostima (e lotta alla gravità) in cui posso permettermi di non farmi bastare due attenzioni basic, altrimenti sarei qui a spiegare cos’è un blog ad un qualsiasi caso umano senza denti davanti conosciuto al pub dopo la quarta birra, ma diciamo che negli anni ho accettato una serie di compromessi, molti dei quali sono descritti con dovizia di particolari nei post precedenti.
Questo mezzo 2022 è stato già abbastanza inclemente con me, anche dal punto di vista sentimentale. Mi sono illusa e disillusa con la rapidità con cui skippo i pezzi dei Negrita nella playlist spotify del rock italiano, e a metà anno mi sento pronta per stilare un primo bilancio del marketing emotivo dei miei disastri.
Nello scandagliare la propria coscienza bisogna essere oggettivi e analitici: rintracciare il minimo comun denominatore, associarlo ad un trauma infantile, moltiplicarlo per tutte le volte che ci siamo cascate, dividerlo per il tempo che abbiamo perso a farci andare bene i fan dei Pooh e i pionieri (sposati) dell’amore libero, ed essere coscienti che il numero di giorni buttati nel cesso è direttamente proporzionale alla nostra consapevolezza di essere cretine.
Gli ingredienti che non mancano mai nel calderone di cazzate che ho fatto ultimamente sono la virtualità e l’egoismo. Con la virtualità ho un rapporto di odio e amore che Catullo spostati. Adoro vedere lo schermo del telefonino che si illumina con un messaggio, mi piace ricevere e inviare foto, canzoni, poesie, like, storie che parlano di noi ma nessuno lo sa, e poi le video-serenate, i vocal di prima mattina con la voce di Amanda Lear, il tutto mentre sono assolutamente libera di fare i cavoli miei nelle condizioni che preferisco: struccata, in mutande, il cane in braccio e una casa che sembra il bagno di XM24. Peccato che l’intensità con cui mi affeziono via whatsapp sia pari soltanto alla rapidità con cui mi stufo di questo genere di rapporto.
Egoismo è praticamente l’anagramma del nome di tutti quelli che ho frequentato quest’anno, e lo scrivo serenamente perché sono talmente egocentrati che non leggerebbero mai un blog scritto da qualcuno di esterno al loro corpo. Gente che ha la tua stessa malattia ma è molto più malata di te, uomini che lavorano solo loro, guidano nel traffico solo loro, hanno ex stronz* solo loro, parenti cagacazzi solo loro, problemi economici solo loro, case da pulire solo loro, mille impegni solo loro. E di tutto questo parlano a te h24, magari mentre sei allettata a causa di un incidente, spaventata, disorientata, ansiata. Ma a loro non importa. Dopo una brevissima fase di ammiccamenti via Instagram, il telefonino comincia a illuminarsi con i vocal delle lamentele quotidiane, le foto sono quelle del pessimo lavoro dell’idraulico, e tu ti rendi conto di aver perso l’istante preciso in cui sei passata dall’essere la principessa del buongiorno alla versione cougar del Telefono Amico.
Seguendo il mio schema di Drama Analytics, la fase successiva consiste nella pacata e oggettiva valutazione del perché cazzo sono così deficiente da mettermi in questa posizione di merda tutte le sante volte. La risposta si trova su quel sentiero impervio a ghiaioso che porta dalla ricerca della mia metà patologica alla consapevolezza che sono diventata una spettatrice qualunque ai drammi inutili della vita di qualcuno, e che dall’altra parte dello schermo dello smartphone potrei esserci io ma anche chiunque altra (sicuramente un tempo c’era la moglie, prima ancora la mamma). A metà strada tra queste due cose io mi perdo regolarmente nell’illusione che essere accogliente e comprensiva mi renda meritevole delle attenzioni che vado cercando, invece sto sovrapponendo la mia faccia a quella di tutta una serie di altre sfortunate donne della loro vita, confuse nell’anonimato di un semplice orecchio che ascolta. In pratica cerco di essere importante per uomini a cui importa solo di se stessi, e così i vuoti emotivi che tento di colmare diventano voragini.
Se avessi la soluzione per disinnescare la dinamica avrei una giacca fucsia sulla quarta di copertina di una decina di bestseller in vetrina da Feltrinelli, invece sono qui vestita come Manuel Agnelli in una stanza che sembra la grotta di Bin Laden, a chiedermi com’è che cerchiamo sempre negli altri quello che solo noi possiamo darci.
L’errore che continuo a ripetere è quello di pensare che l’amore e le attenzioni di qualcuno possano procurarmi quel valore che sento mancare. Sono io che mi vedo mediocre, mi giudico carina ma non bella, mi trovo intelligente ma non geniale. Sono io che mi sminuisco e poi spero che arrivi qualcuno a convincermi che sono ganzissima, annullandomi nel tentativo di dimostrare che lo sono davvero. Le persone che ho frequentato in questo mezzo 2022 hanno conosciuto una versione condiscendente di me, a cui ho smussato certi angoli di insofferenza ed egoismo per apparire inconsciamente più indispensabile ai loro occhi. Non sono più disposta a farlo: voglio essere me stessa anche quando la verità è che mi sono stufata di essere il Telefono Amico. Voglio prendermi la libertà di non rispondere e quella di sfogarmi quando ne sento il bisogno; voglio che accoglienza e consolazione siano reciproche e non dovute, che le mie sofferenze vengano riconosciute e considerate; voglio essere la principessa del buongiorno e non la millesima sostituta di mamma.
E se non troverò la mia metà NON patologica pazienza: mi farò una foto allo specchio con la fascia di Miss Zuccherino e la metterò nella quarta di copertina di questo blog.
Ci sono momenti in cui capisco come si sente un attore di Grey’s Anatomy quando gli consegnano un nuovo copione. La (pacata) reazione dev’essere più o meno “Ma come stracazzo è possibile, raga? Ma ANCORA? Ancora la stessa, stupidissima minchiata che il mio personaggio ha fatto in circa 469 episodi delle 167 stagioni andate in onda?”. La mia vita è un’eterna puntata di un medical drama americano, in cui la protagonista non impara mai dagli errori commessi nelle mille puntate precedenti. Con la banale differenza che nella mia grama esistenza non c’è manco un Patrick Dempsey della Cirenaica con cui consolarsi.
Sono riuscita nell’ardua impresa di farmi ghostare di nuovo. Mentre ero sdraiata con la gamba rotta in scarico e un rosario di oppioidi al collo, mi sono lasciata intortare dal caso umano di turno, che mi ha, nell’ordine, contattata-corteggiata-chiesto il numero-invitata ad uscire-confessato di avere un debole per me da tempo-trombata-lusingata-esortata a pisciare sul (mio?) territorio, per poi sparire nel nulla in una tiepida mattina di maggio, mentre zoppicavo ignara nel reparto ortofrutta della Coop di San Ruffillo.
Been there, done that. Nella puntata precedente di Fede’s Anatomy la storia era stata decisamente più lunga e intensa, io ero una persona decisamente più cretina e ingenua, e così avevo passato parecchi mesi a imbottirmi di fiori di Bach e piangere disperata, perché chissà cos’avevo fatto di sbagliato per MERITARE di essere scaraventata nell’oblio, mentre sorridevo dal finestrino dall’auto in corsa dell’ammmore. Questa volta non ho versato una lacrima. Ho lasciato passare i primi 4 o 5 giorni di sbigottimento, ne ho passati altri 3 a rimuginare. Ora sono incazzatissima con me stessa per aver speso quelle 72 ore a mettere in dubbio il mio valore, di fronte ad un uomo così egocentrico e infantile da non avere nemmeno il coraggio di dire a voce alta che non ha voglia di frequentarmi.
Il problema dell’essere ghostati è che in automatico si cerca (in noi) una ragione valida che tappi con forza il senso di vuoto lasciato dalla sparizione improvvisa, quella ragione che il fantasma non ha ritenuto fosse il caso di dare. La verità è che un gesto così vile e irrispettoso non ha mai motivazioni sufficienti: una persona che si comporta in questo modo non merita che si perda tempo a domandarsi perché. Le vie dei casi umani sono infinite, conta soltanto che corrano parallele alla mia, e – salvo fermarsi per qualche rapido picnic panoramico – proseguano nella loro direzione senza incontrarsi mai più.
Quando ero bambina avevo un debole per un ragazzino del paese più grande di me: era sempre sorridente, con un’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. A 20 anni stava con la ragazza più bella e stilosa che io avessi mai visto; avrei voluto essere lei per limonare con lui diventare quel tipo di donna così piena di personalità e carattere da ammaliare un uomo tanto intelligente e inarrivabile e limonare con lui. L’altra sera – in una pausa tra un caso umano e l’altro – l’ho incontrato per caso. È sempre sorridente, con quell’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. Abbiamo chiacchierato un po’ mentre mi guardava fisso negli occhi, che in quel momento sentivo fin troppo grandi. Poi, con un filo di imbarazzo, mi ha detto “Ti seguo sempre, mi fai ridere un sacco”. Se n’è andato voltandosi un’ultima volta per sorridermi e lasciarmi lì, a fissare il fondo della birra media e chiedermi per quale cazzo di motivo ho sempre pensato di non meritare uno come lui. Uno che mi guardi negli occhi mentre mi parla, che sia capace di fare un complimento a voce alta, che sia interessante, brillante, bello e abbastanza adulto da non doversi nascondere dietro lo schermo del telefonino, così coraggioso da girarsi a guardarmi mentre mi volta le spalle.
La codarda mi sa che sono io. Sono la leonessa da tastiera che ha deciso di rifugiarsi nella comfort zone di casi umani conclamati con cui non è stato mai necessario mettersi in discussione. Mi sono svalutata e scontata, buttata al collo di gente che avrebbe dovuto gioire per avermi conosciuta e frequentata, e invece si è permessa di sparire nel nulla, instillando in me – anche solo per un secondo – quel senso di umiliazione da rifiuto adolescenziale. La festa delle medie è finita e io non sono più una bambina in costante ammirazione degli altri; ora sono la donna da ammirare perché piena di personalità e carattere, e cerco un uomo non troppo concentrato su se stesso da accorgersene.
E se picnic deve essere, che sia almeno in prato bellissimo vista stronzi.
Ho il Covid e sono isolata nel mio bilocale al Trappolone dal 27 dicembre. Eviterei di dedicare più dell’introduzione alla saturazione a 93, al Capodanno passato a letto a guardare i Goonies (never say die, ma qualche chitammuort mi è scappato), alla mattina in cui sono svenuta cercando di alzarmi e risvenuta cercando di prendere il telefono (ok, ho capito, non c’è bisogno di insistere), al periodo in cui non sentivo i sapori e mio padre mi faceva la spesa a caso al discount, comprandomi le copie cheap delle cose che mi piacciono e facendomi sentire come le adolescenti che sfoggiano chanel di cartone per emulare la Ferragni. A voi frega solo delle mie peripezie sentimentali, ed eccovi serviti.
Naturalmente l’isolamento è l’ecosistema ideale in cui piantano radici gli amati Leoni da tastiera: non puoi uscire, non puoi vederli, non puoi sorprenderli a cena con la moglie che cerca di ingozzare i figli cresciuti ad ipad e anaffettività. Del resto la cosa ha il suo tornaconto, visto che loro non possono vedere te, non possono soprenderti con il taglio di capelli di Toto Cutugno e i peli sulle gambe di Patti Smith, mentre ti ingozzi di gallette di mais che non sanno di un cazzo, e non puoi nemmeno dare la colpa al Covid.
In queste tre settimane (trascorse prevalentemente a raccogliere merde del mio cane in giardino cercando di non svenirci sopra), ho sentito con sorprendente costanza tre tipologie di uomini sbagliati, per i quali vedo già formarsi le tifoserie tra i miei amatissimi (quattro) followers.
A) L’uomo sposato con figli: in crisi con la moglie, belloccio, mi ama, battute sconce quanto basta per mettermi in imbarazzo, messaggi teneri da ubriaco, un paio di telefonate quando la moglie è al lavoro. Già sfanculato ma insistente. Che è belloccio l’ho detto?
B) L’ex redento: un milione di cose in comune, improvvisamente “issimo” (dolcissimo, preoccupatissimo, amorevolissimo). Mi ha già sfanculata lui, ma chi sono io per non concedere un’ottantaseiesima possibilità a uno che mi ha ghostata? Che è issimo l’ho detto?
C) Lo sconosciuto: single, visto solo una volta ad un concerto, poi ognuno per sé e Covid per tutti. Intelligente, presente, molte cose in comune, compreso l’isolamento. State già gridando all’uomo ideale, ed io potrei guidare il coro, se solo non ci fossimo visti dal vivo per un totale di 8 minuti, in mezzo a circa 400 persone. Che è single l’ho detto?
Ora, prima di dare la soluzione al quiz delle personalità (non è capovolta a fondo pagina solo ed esclusivamente perché non lo so fare), mi permetto di aggiungere un piccolo siparietto “cogliona racconta”, confessando che al giorno 8 la malattia ha avuto la meglio sulla mia dignità (spoiler: mi sto giustificando) e ho mandato un messaggio all’ex (un altro) di cui mi auto-convinco against all odds di essere ancora innamorata da anni. La sequenza è stata più o meno: “sto male, ho bisogno di parlarti” – visualizza e non risponde – due giorni dopo scrive “dai che passa tutto” – seguono 25 foto di suo figlio “guarda che bello che è diventato” – io smiley con sorriso passivo-aggressivo per la rabbia di averla data a uno che pensa sia ok mandarmi le foto del figlio fatto con un’altra nei rari intervalli in cui non russava sotto al mio piumone. No Phil Collins, I can just walk away from him.
Tornando alle cose serie (sì certo, come no). Lo so raga, la A non è una soluzione. Flirtare col belloccio di turno che mi manda messaggi d’amore mentre la moglie è impegnata a lavargli le mutande non è un’opzione. So anche che è sciocco e ipocrita da parte mia pretendere che lui capisca perché lo sfanculo e non voglio continuare a sentirlo: dovrei smettere e basta. Ma nonostante stia cercando di diventare adulta, sono sempre quella che ha coniato la filosofia del Cazzomene e ammetto che qualche volta è ancora elettrizzante perdersi nello spettacolo d’arte varia di uno innamorato di me.
L’opzione B più che minestra riscaldata sembrano i passatelli che mi ha mandato mia madre per il cenone del 31, che quando ho aperto il termos traboccavano fuori come schiuma dopo aver assorbito tutto il brodo. Per quanto rassicurante sia l’idea di riavvicinarsi a qualcuno di cui conosci l’odore, è altrettanto frustrante vivere una relazione con il terrore che la storia si ripeta, che quell’odore sparisca, che tornino lacrime e abbandono al posto della dolcezza e della preoccupazione. Non c’è più fiducia: si è asciugata come il brodo in mezzo a tutte quelle promesse non mantenute.
Mi ci sono voluti 42 anni e tre settimane di isolamento per capire che le opzioni A e B sono il mio consueto modo di guardare la vita che passa dal mio bilocale vista stronzi, senza mai avere il coraggio di scendere per fare una passeggiata con uno che non debba correre a casa dalla fidanzata o a grattarsi le palle h24.
La passeggiata è contenuta nell’opzione C, che mi terrorizza e che sto già tentando in ogni modo di sabotare. Perché non ci conosciamo, perché è un odore nuovo e sconosciuto, perché potrebbe non piacermi come cammina o come mi guarda, e a lui potrei non piacere io (soprattutto se non riesco a tagliarmi il caschetto da Johnny Ramone prima di vederlo). La paura più grande deriva dal fatto che, come le opzioni A e B, anche la C potrebbe andare male, ma al contrario delle altre potrebbe anche andare bene. E allora cosa farei della mia vita? Come dice sempre mia madre, non posso mica smettere di frequentare dei casi umani, poi cosa scriverei sul blog?
Tutti i giorni della nostra vita rompiamo i coglioni per avere qualcosa che semplicemente abbiamo paura di prenderci. Basterebbe il coraggio di accettare la sconfitta e continuare a scrivere di casi umani e stronzi egoisti, oppure ci vorrebbe la forza di accettare di essere felici, ogni tanto. Giusto per cambiare aria al bilocale vista stronzi.
L’altro giorno un amico mi ha chiesto qual è il mio “tipo”. E siccome sono una persona estremamente equilibrata e serena, l’innocente domanda ha scatenato in me una spirale di riflessioni che mi hanno tenuta in casa a guardare il soffitto tutto il weekend (quello e il fatto che il mio cane ha pensato bene di mangiare un’ape, diventando la versione canina di Sloth dei Goonies) (e un pochino anche il fatto che sono uscita a ubriacarmi tutte le sere della settimana tornando a casa in condizioni pietose al grido “Sono il diavolo, sono Bin Laden”).
Tutti noi abbiamo in testa un’idea di quello che ci piace e che ci renderebbe felici, ma proprio perché è una NOSTRA idea, forse non dovremmo fidarci. O meglio: siamo sicuri di sapere che tipologia di persona potrebbe renderci sereni e appagati, farci trascorrere momenti indimenticabili, prendersi cura di noi e di un cane divora-insetti, passare i weekend al nostro fianco mentre rimuginiamo sul senso della vita?
I miei amici, ad esempio, sono inspiegabilmente convinti che il mio uomo ideale sia lo spacciatore-delinquente-ipertatuato-rozzo-sporco-motociclista-“ma guarda picchia i bambini, è proprio il tuo tipo” kind of guy. E inclusa quella volta in cui mi hanno presentato un signore di 67 anni con i capelli lunghi, lisci e candidi in stile Gandalf, “perché è un uomo maturo come piace a te”, non credo abbiano mai centrato i miei gusti.
Innamorarmi dell’idea che mi ero fatta di qualcuno è stato il mio sport preferito per anni. Meno li conosci e più puoi fantasticare, meno li frequenti e più li ami, e seguitemi su questo blog per altre ricette. Meno personalità hanno e più facile sarà innestare su quel corpo inerme il modello di partner perfetto, creato in anni di commedie romantiche, libri di De Carlo e canzoni dei Beatles (ok, boomer).
Tra i miei (vani) tentativi di abbandonare l’adolescenza in favore dell’età adulta – sì lo so, la storia di Bin Laden non aiuta, ma è stata DAVVERO una settimana di merda – ho deciso di cercare di mettere in pausa il mio film mentale ed attenermi ad una cosa terribilmente spaventosa e disarmante: la realtà. Potrebbe non essere facile accettare che il nostro uomo ideale non è bello e dannato come Johnny Depp ma più pacato e rassicurante come l’ingener Filini.
A me sono sempre piaciuti i bravi ragazzi. La cosa stupisce un po’ tutti, forse per il mio aspetto rock’n’roll, il caschetto, i tatuaggi e gli anni di formazione dietro ai banconi dei club di mezza Bologna, ma credo di aver sempre – come ogni bambina – cercato di riprodurre il grande amore e l’ammirazione che provavo per mio padre. Poi un giorno, per caso, mi è arrivato il solito ceffone sordo che mi dà la vita quando vuole per forza rompere la mia bolla e farmi cadere di culo sul cemento della realtà, e ho scoperto che mio padre è uno stronzo egoista e menefreghista. E potrei continuare con la lista di complimenti per altre dieci pagine di wordpress.
Essendo io una persona estremamente equilibrata e serena, la cosa ha soltanto mandato in frantumi tutto quello che avevo costruito in una trentina d’anni di vita. Scoprire che l’idea che mi ero fatta di mio padre era soltanto un’illusione infantile mi ha fatto mettere in discussione un po’ tutto quello in cui credevo, come se improvvisamente non fossi più in grado di distinguere la realtà dalle mie ingenue fantasie, come se avessi capito che la vita intorno a me era un insieme di cartonati hollywoodiani in cui girare la fiction scadente della mia esistenza felice, fatta di fiorellini, farfalline e delusioni mortali. Ho (banalmente) smesso di credere nell’amore e nella capacità delle persone di ricambiare il mio affetto, ho chiuso con il lasciarsi andare, il far entrare qualcuno nel proprio spazio, accordandogli la fiducia che ci vuole per vivere.
Per anni ho scelto di frequentare soltanto uomini fidanzati o sposati, accompagnandomi a persone già stronze per definizione nel tentativo di prevenire la delusione. Potresti mai sentirti tradita da uno che tradisce sua moglie con te? Potrebbe mai rompersi qualcosa dentro di te se sei al sicuro dentro una matrioska di infedeltà ed egoismo? Non ne vado fiera, sia chiaro. Ma ognuno si difende dalla vita come può.
Nel mio viaggio verso il fondo del barile emotivo, ho mantenuto solo una variabile degli anni precedenti: l’obiettivo. Sapevo che non avrei più trovato mio padre nei bravi ragazzi che mi hanno amata e rispettata per metà della mia vita adulta, così l’ho cercato nei narcisisti menefreghisti che più si avvicinavano alla mia recente visione di lui.
Alla fine credo pure di averlo trovato. Non nell’uomo perfetto, eroe senza macchia che idolatravo nella mia bolla adolescenziale, e nemmeno nello stronzo, egoista e manipolatore che ho pensato di meritare nella fase nichilista. Ho trovato mio padre nelle persone che sbagliano, quelle tendenzialmente di buon cuore ma poco coraggiose, quelle che non hanno gli strumenti per capirsi e cambiare le proprie vite, quelli che hanno fatto cazzate e tentato di riparare con pezze più evidenti dello strappo. Ho trovato mio padre in tutte le volte in cui non ho saputo cosa fare della mia vita, in quei momenti in cui senza convinzione mi sono buttata nelle cose al grido “cazzomene“, spesso anche nei rientri a casa poco stilosi e affatto sobri.
Ho trovato mio padre e ho capito che non è il mio tipo: ho perso il “modello” su cui fantasticare, ma ho trovato la realtà. E ho scoperto che conoscere qualcuno senza pregiudizi è decisamente più sorprendente di proiettare i miei desideri, ci si può scoprire innamorati di qualcuno che ci fa davvero stare bene, a volte anche contro la nostra volontà. Quindi non ce l’ho, un “tipo”: ho un cane con la testa deforme e un sacco di voglia di perdonare.
Un tempo la domanda sul “fidanzato” era prerogativa della nonna al pranzo di Natale, che poi ti metteva in imbarazzo giusto quei dieci minuti davanti ai passatelli in brodo e ad un convegno di parenti divorziati male, ma del resto aveva ricamato le tue iniziali su un corredo quando avevi 4 mesi, quindi qualche diritto di sapere a che punto stava la tua vita sentimentale -la nonna- ce l’aveva pure. Oggi la disanima del nucleo famigliare degli altri sembra essere l’obiettivo comune di tutte le donne dai 40 in su, generalmente incastrate in un una famiglia con figli, marito bolso mononeurale e amante in ufficio che fuori dalla stanza delle fotocopie nessuna pietà. Prima ti guardano con gli occhioni pieni di ammirazione ed entusiasmo mentre ti chiedono con finta discrezione “e tuo marito cosa fa?”, poi quando scoprono che sei single a 40 anni parte la consueta catena di non richiesto salvataggio: prima lo sguardo contrito di compassionevole dispiacere, poi il brainstorming in tua presenza da cui carpisci solo alcune frasi come “amore, presentiamole quel tuo amico tatuatore visto che lei ha i tatuaggi!”, oppure “caro, ma dalle il numero di quel signore che fa il giardiniere che lei ha il giardino”, o ancora “tesoro secondo me starebbe benissimo con tuo cugino che va a pesca perché anche a lei piacciono gli animali”. La consolidata catena di eventi si chiude generalmente con una patetica stretta delle mani in segno di pseudo-sorellanza ed il più classico: “Vedrai che prima o poi troverai QUALCUNO anche tu”.
Per TROVARE qualcuno – sia chiaro – lo DEVI CERCARE. E quindi seguono gli accertamenti sulla vita che conduci. Sarai abbastanza concentrata sulla caccia? Sarai attenta ai segnali? Non sarai mica una di quelle con troppe pretese che non le va mai bene nessuno? Perché non ti fai tinder? E qui scatta il monito: guarda che se poi ti abitui a stare da sola finisce che ci rimani per sempre.
“Il fatto che tu sia single è inspiegabile” mi ha detto il barista porgendomi la birra (avevo una maglietta scollata, ok, ma comunque lo ha detto davvero). E non volendo certo fare la femminista cagacazzi di cui al post precedente me ne sono andata a casa con un trolley di punti ego. Poi ci ho pensato su – perché non sarò femminista ma cagacazzi senza dubbio – e mi sono chiesta: ma in che senso? Cioè è inspiegabile che gli uomini non ci provino con me perché sono carina? È inspiegabile che nessuno abbia ancora fatto la bazza del secolo portando a casa il premio della tombola? (Je suis i prosciutti della Festa de l’Unità). O forse è inspiegabile per più o meno tutti il fatto che io possa vivere una vita degna in totale solitudine, riuscendo addirittura a cambiare lampadine e fare il pieno di metano? Dove sta il mio potere decisionale nel fatto che “inspiegabilmente” non sono fidanzata?
Nel compendio della mia vita adulta sono stata molto più tempo fidanzata che single. E sono stata molto felice ed estremamente triste in entrambe le ‘condizioni’. Se dovessi fare un elenco delle cose che mi hanno dato più gioia e soddisfazione, nessuna di queste sarebbe legata ad una persona esterna da me. E nessun picco di dolore, insoddisfazione o amarezza sarebbe il risultato di qualcosa che ha vissuto qualcuno che non sono io. Del resto si chiama COMPAGNO, ed è una persona che abbiamo ACCANTO, e non al nostro posto, per un periodo più o meno lungo di questa esistenza. Certo, ho attraversato anch’io qualche anno buio, in cui mi ero lasciata convincere dall’insistenza di mia madre e di tutte le donne intorno che l’obiettivo fosse davvero quello di stanare l’esemplare giusto con cui accoppiarsi. Ed è stata quella l’epoca in cui ho dato più soddisfazioni ai followers di questo blog, costringendomi ad essere innamorata di gente inadeguata, indisponibile, incomprensibile, semplicemente incontrata sulla mia strada in un momento in cui pensavo che l’obiettivo fosse TROVARE QUALCUNO. E di “qualcuno”, care amiche, è pieno il mondo. Ma io non ho nessuna voglia di uscire con una persona con cui mi accoppia un algoritmo, e nemmeno con gli amici dei vostri mariti con cui ho in comune il segno zodiacale o la passione per Star Wars.
Essere single non è una colpa, né un motivo di vergogna, non è straordinario e a volte nemmeno inspiegabile, perché lo scopo della vita non è stare con un uomo, ma vivere la propria esistenza nel modo più degno e soddisfacente per sé. E – guess what? – io sono abbastanza soddisfatta del modo in cui cambio lampadine e faccio metano, all by myself. Per quanto “incomprensibile” questo possa risultare alle over 40 maritate o al barista con un debole per le scollature.
Il modo in cui Andrea conosce le persone è unico e invidiabile. Vorrei che tutti gli uomini (uno solo) per cui mi prendo una leggera sbandata (l’Amore eterno) fossero un po’ come lui. Magari non come lui quando mi pianta sola in un vicolo buio del centro perché ha trovato una sbarba con cui andare a bere una sciocchezza, o come lui quando si dimentica che poche ora prima gli ho confidato una cosa per me di vitale importanza; diciamo più come lui quando incontra una che lo gasa per i più disparati motivi, e le chiede di uscire con una naturalezza che io non ho nemmeno con la cassiera della coop che sa cosa mangio fin dai tempi del liceo.
Andrea si relaziona alle persone con l’ingenuità di un bambino: si interessa alle storie degli altri, ai loro gusti, ai libri che leggono; fa attenzione a come usano il linguaggio (poi sospira «aaahhh la lingua italiana!»), canta canzoni in coro, guarda foto, conosce, ascolta, percepisce segnali e reazioni. Io lo so perché a volte sono presente. Sono l’amica vecchia che si porta dietro (solo perché io ho lo scooter, due caschi e abitiamo vicini), e credo che la mia presenza in realtà lo aiuti con le ventenni, perché pensano che e io sia la madre o l’amica milf, cosa che le fa stare più tranquille. Andrea comunque non è mai viscido né marpione. Certo: vuole inzippare pure lui come tutti gli altri, ma non lo dà mai a vedere. A fine serata – se non mi abbandona nel vicolo – torniamo allo scooter e lui ha sempre un contatto, un intorto o, come minimo, una nuova amicizia. Un tempo ero così anch’io: ingenua, spontanea, libera da condizionamenti e da giudizi. A volte lo sono ancora, molto raramente. Guardo Andrea e penso che lui ha 35 anni, io ne ho 41 e mi sento vecchia; lui ha un sacco di cose da dire, io mi sento vuota; lui è bello, io ultimamente mi sento un bagaglio a mano dell’easyjet che devi pure pagare per imbarcarlo.
Ieri ho letto per caso la frase “Chi cerca col sorriso ha già trovato”. Andrea cerca col sorriso, io cerco con la tigna. Un po’ perché a 40 anni ti inculcano l’idea che se esci a bere una sciocchezza con uno non è solo per conoscerlo ed eventualmente tornare a casa da sola con una nuova amicizia; se esci con qualcuno lo devi fare necessariamente per SISTEMARTI: sposarti con l’abito bianco, fare tre o quattro figli, andare a vivere in un appartamento con i mobili grigi e i gerani sul balcone, cucinare salsiccia e patate e fare le cene a quattro con un’altra coppia di geppi. Così io, che odio il bianco e vivo nella casa dei puffi con i mobili gialli, amo le piante verdi e sono vegetariana, faccio un filino fatica a trovare la voglia di aprire il mio cuoricino di latta e mostrare quei quattro sentimenti avvizziti che sono sopravvissuti ad anni di siccità. Se uno mi sorride mentre gli porgo le tagliatelle almeno quattro colleghi si precipitano a farmi notare che ne vuole, se a cena mi metto a parlare con un commensale di sesso maschile tutti si aspettano che finiremo al Trappolone insieme, e quando uno mi offre una birra al pub sicuramente mi vuole dare due colpi (ok, ammetto che in quest’ultimo caso potrebbe essere vero).
Le relazioni umane sono condizionate dall’idea che l’amore – o per lo meno inzippare – sia il fine ultimo delle nostre esistenze. Il retaggio che ogni interazione sia l’opportunità per trovare l’anima gemella o il trombamico ha sabotato la spontaneità con cui un tempo facevo amicizia anche con i muri, e magari in quell’epoca conoscevo le persone prima di perdere la testa per loro. Oggi conoscersi è sopravvalutato, parlare è uno spreco di tempo. Ci si prende una sbandata per un profilo Instagram su cui si proietta la propria idea di compagno, si scopre tutto da facebook, si legge la bio, si sa già che musica ascolta da spotify. Non c’è bisogno di uscire insieme, siamo già insieme da qualche parte nel world wide web. Io di questo meccanismo ne ho piene le palle, eppure ne sono vittima e carnefice. Sono succube di tutti i cazzari e tecno fenomeni di cui ho già ampiamente descritto le gesta (i leoni da tastiera, i ghost, gli zombie), ma sono anche diventata sterile nelle relazioni umane fuori da un telefonino. Soprattutto con quelli (uno solo) che mi piacciono. Ammetto di essere il tipo di donna spigliata ed esuberante che quando parla con un figo diventa un essere mono neuronale incapace di esprimere frasi di senso compiuto. Resto lì con lo sguardo vitreo perso nel vuoto come Sue Ellen che guarda l’orizzonte in Dallas, mentre lui magari pensa che sarei pure carina, peccato solo per la lobotomia frontale che ho subito qualche minuto fa. L’altra sera, per invertire la tendenza, ho portato io Andrea con me ad incontrare uno che mi piace, per avere una sua opinione sul mio atteggiamento estremamente lampante, sui miei sorrisi evidenti, le mie mosse chiaramente ammiccanti, il mio atteggiamento trasparente nei confronti di questo malcapitato essere umano. Ha detto Andrea che io non faccio assolutamente NIENTE. L’apertura di uno spiraglio sul mio mondo interiore – che io vivo come uno sforzo soprannaturale – agli altri è totalmente invisibile. Questo sbilanciamento nella percezione della mia volontà significa che ogni volta in cui mi lamento di incontrare solo casi umani, perdo di vista il fatto che il caso umano sono io. Sono io quella che non sa relazionarsi, sono io che non mi apro, sono io il gorilla silverback. Sono io che non ho il coraggio di essere diretta e di chiedere ad un uomo che mi piace di andarci a bere un caffè, e parlare di libri, dei suoi gusti, cantare canzoni in coro e ascoltarlo. Con la consapevolezza che potrei tornare a casa da sola con o senza il suo numero, ma che mi sarei comunque divertita a far entrare un po’ di luce in quella caverna che ho al posto del cuore. Oppure suggerisce sarcasticamente Andrea che potrei continuare a fare quello che ho fatto fino ad ora: NIENTE.