Pantone Cadavere

Ci si abitua a tutto. Alle mancanze, alle presenze, ai difetti propri e degli altri, a vivere insieme, a stare soli. Il tempo non cura tutte le ferite, è l’abitudine a permetterci di convivere con le cicatrici. Passano i giorni, le settimane, e quello che sembrava straordinario e inedito diventa la regola, diventa normale.

Dopo un mese e mezzo di quarantena la mia quotidianità si snoda tra gli angoli azzurri della camera da letto e quelli gialli del salotto (sì, lo so, vivo nella casa dei puffi), con qualche pausa giardino, ma breve perché sono Pantone Cadavere e perché tra le gioie di questa splendida annata posso annoverare la mia prima esplosione di allergia.
In un percorso a tappe fatto di letto-divano-sdraio-divano-letto-tavolo-letto, cominciano e finiscono giornate eterne consumate perlopiù a cucinare prelibatezze vegane (e fotografare, e inviare, e promettere ad amici entusiasti, che nel frattempo stanno grigliando costolette e arrosticini), a prendermi cura di me stessa per non precipitare nel girone estetico Controlla (barbona uoma sciatta con capello unto), a guardare serie Tv che tutti mi avevano consigliato («Chi cazzo sei, la Corea del Nord che non hai visto niente?»), a intrattenere rapporti telematici per non alimentare il Mauro Corona che è in me.

Nella nuova routine da isolamento forzato, è diventato normale vedere gli amici solo attraverso lo schermo del Mac o quello crepato del telefonino, ed è normale attendere le videochiamate con l’ansia con cui un tempo aspettavo di intervistare Peter Gabriel. Con la stessa eccitazione, del resto, vivo i minuti che mi separano dal portar fuori la spazzatura, per non parlare di quello straordinario giorno della settimana in cui torno a guidare l’auto e arrivo fino alla Coop del Comune limitrofo per fare la spesa: una vera fuorilegge.
Le giornate si aprono con la rassegna stampa Instagram e si chiudono con una breve videochiamata ai miei genitori, che per l’occasione hanno imparato ad usare whatsapp.
Tutto il resto è rimuginare.

Rimugino sul passato e sul presente, mentre cerco con tutte le mie forze di evitare il futuro per non concludere la quarantena in una vasca di Xanax. E ora che l’abitudine ha reso non solo accettabile, ma normale questa spaventosa situazione, ripenso a quante volte, nella vita, mi sono dovuta assuefare a situazioni straordinarie, inevitabili, terrorizzanti. E a quante volte la consuetudine sia stata la salvezza ma anche la vera fregatura. Perché il bello della quotidianità è che si rende evidente proprio quando ti viene sottratta, e in questo periodo più che mai ci troviamo a corto di tutto quello che fino al 7 marzo davamo per scontato.

Io, per esempio, mi sono sempre abituata a vivere in funzione di qualcun altro: la figlia di Bertino, la sorella della Lisa, la fidanzata di Dedu. Essere il riflesso di qualcun altro non ha certo agevolato la sicurezza in me stessa e nelle mie capacità, ma sicuramente ha alimentato la convizione di essere completa soltanto in presenza di qualcun altro. Così gli ultimi anni li ho spesi a cercare di riabituarmi a vivere in funzione di me stessa: ad ascoltarmi, a conoscermi, a capire chi sono e cosa voglio, a fare cazzate (soprattutto a fare cazzate) e ad imparare dagli errori per non finire come Meredith Grey, che alla 59esima stagione di Grey’s Anatomy continua a imperterrita a fare le stesse stronzate.
Forse mi ero assuefatta anche a vivere di questa ricerca senza fine, perché ora che mi trovo davvero sola, a fare i conti con me stessa, a pranzare e cenare da sola, a cavarmela con le mie uniche forze, non mi sembra di essere davvero preparata. Mi manca l’idea di poter prendere un aereo e andare a Barcellona da Daria, da Tobi e dalla Manu, o a Parigi dalla Fra, o ad Amsterdam da Jenni; mi mancano le Augustiner fresche al Mutenye, mi mancano i neon di Zara, i pranzi da Bio’s, la pizza di Totò, mi manca il consumismo. Ieri, in coda per entrare alla Coop, chiacchieravo di antropologia con un anziano signore (sì, perché tra le nuove consuetudini da quarantena ci sono amabili simposi con i vecchi davanti ai supermercati) e ci auguravamo che tutto questo potesse insegnare qualcosa all’umanità. Lui, sorridendomi con gli occhi rugosi mentre il vento gli sompigliava ciuffi di capelli candidi, ha detto «Quando finirà, torneremo a prendere aerei, comprare vestiti: ricominceremo a spendere soldi. Torneremo dritti tra le braccia del consumismo, perché questo è quello che normalmente ci fa sentire completi».

La normalità fino al 7 marzo era fatta di birre, straccetti di seitan e jeans nuovi: il consumismo ci rendeva completi. La normalità oggi è fatta di risotti, skypecall e pigiami: chissà cosa ci rende completi. Forse l’illusione di poter tornare esattamente a quello che avevamo lasciato, il miraggio di potersi infilare nuovamente nell’avvolgente routine a cui eravamo abituati. O forse dovremmo lasciare che il passato sganci l’ormeggio e ci lasci esplorare una nuova quotidianità, fatta di meno cose e più dialoghi, di delfini a Marina di Ravenna e cinghiali in via San Mamolo, di pranzi vegan cucinati da me mentre Sandro griglia arrosticini, di lunghe chiacchierate con gli anziani del quartiere e videochat con i miei genitori, di volersi bene a prescindere dal giudizio degli altri, di riempirsi la testa di cose belle e non gli armadi, di stare vicini anche quando si è lontani. La quarantena mi ha insegnato che le cose importanti non sono materiali, ma così sottili e trasparenti da trovare sempre un modo per entrare nella mia casa e scaldarla.