Teladicoiolaverita.com

La preziosa filosofia del cazzomene – che ha guidato la mia esistenza so far come un’oasi nella nebbia delle responsabilità – si è un po’ rovinata strisciando sull’asfalto di porta San Donato insieme alle mie vertebre. Diciamo che perdere d’un tratto la propria autonomia, trovarsi in ospedale con un infermiere di 25 anni che ti lava con una spugna e trascorrere mesi a dover chiedere aiuto per qualsiasi cosa sono ragioni abbastanza convincenti per fermarsi un attimo a riflettere su cosa cazzo sto facendo della mia vita. Mentre io sono qua dentro a piagnucolare perché non posso affrontare il ciottolato del Pratello in stampelle, là fuori c’è la guerra, la pandemia, la gente che mette le ciglia ai fari delle auto e quelli che “Stefano Cucchi era un tossico e meritava di morire”. Sopravvivere è stato figo, è sul vivere che faccio un po’ fatica.

La mia voglia di esistere (ma soprattutto di bere) oscilla tra la drammaticità della situazione mondiale e il ‘carpediemismo’ che ti coglie quando rischi di schiattare un paio di volte in un mese: non faccio altro che sognarmi al sole, felice, magra, sorridente, mentre mangio circondata dai miei amici, magra, con una birra in mano, a fare le solite gag con la balotta, magra. Peccato solo che la mia già notoriamente bassissima soglia di tolleranza nei confronti dell’umanità sia passata in questi mesi dal cancellare un contatto al primo congiuntivo sbagliato a “non ti azzardare a rivolgermi la parola”.

Due anni di pandemia non hanno agevolato chi come me aveva fondato la propria esistenza sulla socialità: 24 mesi di uscite di casa soltanto per andare al lavoro e rientrare attraversando una città deserta, cenare in solitudine e guardare Netflix col cervello sul comodino; due anni di incontri e flirt virtuali consumati dal conoscersi troppo senza essersi mai annusati; due compleanni a brindare su zoom con le mie amiche sparse per il mondo. Ci si abitua a tutto, anche alla noia. Così, adesso che il covid non fa più così paura, nessuno di noi riesce a stare sveglio oltre le 11 di sera, chi ce lo fa fare di uscire dalla capanna, c’è una serie da finire, una cena solitaria a cui partecipare, un tizio nuovo con cui chattare senza troppo entusiasmo. Chi era già abituato a vivere nel celeberrimo bilocale vista stronzi (che uno specialista chiamerebbe comfort zone) ora ci ha fatto il nido con rametti di tre “s”: streaming, smartworking e sexting. Figuriamoci io che mi sono pure tutta rotta.

Mai come nell’ultimo periodo ho capito che il tempo a disposizione non è infinito: è chiuso in una clessidra già capovolta e dipende solo da me se sguazzare nella sabbia che mi resta e costruire qualche castello, oppure continuare a tirarmela negli occhi per non vedere con chiarezza le cazzate che mi ostino a fare. Ho davvero voglia di continuare a litigare sui social con casi umani che non riescono mai una volta a mettersi dalla parte giusta della storia? Sono ancora convinta che la mia felicità sia in un mestiere sottopagato, sottostimato, sepolto da una coltre di siti acchiapaclick e da una lunga serie di fake news esilaranti da leggere su teladicoiolaverita.com. E – sentimentalmente speaking – penso ancora che rispondere alle avance di uomini sposati che giurano di puntare solo e unicamente alla mia amicizia sia una buona idea? Ho intenzione di continuare a dedicare gli ultimi granelli di sabbia in cui la quarta di reggiseno si oppone con fatica alla forza di gravità a gente che mi rende insicura sparendo per settimane? Davvero ho voglia di relazionarmi con cinquantenni a cui non posso mai dire quello che provo per paura che scappino impauriti tra le braccia di mamma?

Basta raga, io non ho più tempo per oppormi. Siate tranquillamente no vax, no pass, no cazz, filo Putin, nazi cattolici. Informatevi serenamente su quellochenontidicono.dev, custodite la verità che più vi piace. E poi tradite le vostre mogli raccontandovi che era solo un’amicizia, ghostate pure la gente, costringete le donne ad essere algide e stronze per paura di perdervi. Io sono stremata da questa mia insensata battaglia per cambiare gli altri. Facciamo una prova: voi restate come siete e cambio io. La smetto di fare polemiche, di spiegare, di litigare, di far cadere le mie idee in un abisso di ignoranza. La finisco anche di aspettare, di elemosinare, di proiettare la comprensione che vorrei su egocentrismo e immaturità. Invece di fare tutta questa fatica per nuotare contro corrente, me ne starò ferma sulla riva del fiume a mettere in piedi castelli con la sabbia che resta nella mia clessidra. Perché stavolta l’infantile convinzione di essere invincibile si è spezzata con le mie ossa, e mi sono resa conto che nel giorno della fine non solo non serve l’inglese, ma nemmeno la quantità di volte in cui hai avuto ragione, o il numero di stronzi a cui hai fatto cambiare idea: serve solo il pensiero della felicità che hai cercato dentro e costruito apposta per te, e quella resiste a tutte le tempeste.

Checrudezza.com

Si stava meglio quando si stava meglio. E si scriveva di stronzate, casi umani da interpretare, paturnie varie ed eventuali da risolvere con una damigiana di fiori di Bach. Poi le uscite sono diventate videochiamate, le serate pomeriggi, la priorità sopravvivere. Il mio blog si è macchiato di tutta la frustrazione intorno, ho cominciato a parlare (da sola) di quarantena e paura, di soddisfazioni e solitudine, emulando a parole l’altalena emotiva che avevo dentro. Oggi rallegratevi perché si parla di morte.

Uno dei primi incarichi che mi ha assegnato la mia nuova capa è stato scrivere un articolo su tutti i lutti celebri del 2020. Figo il fantamorto, ho pensato. Presa dall’entusiasmo ho subito aperto una bozza e cominciato un attacco su quanto funesto sia stato questo anno incredibile.
L’ispirazione si è interrotta a più riprese dalla polemiche sulle piste da sci chiuse a causa del coronavirus, da Zaia che si scaglia contro il governo, i negozianti che insorgono, i ristoratori che si lamentano, gli sciatori che inveiscono. Ho aperto e chiuso dieci volte la mia bozza salvata con la parola chiave “funesto”. Ho scritto un paragrafo su Maradona e l’entusiasmo ha cominciato a vacillare.
Ho dato un’occhiata al notiziario per distrarmi, c’era il bollettino della Protezione Civile: 993 morti. Tutti intorno a me hanno commentato “il giorno del record”, come se il primato potesse rendere ancora più impersonale quel numero, vite spente di persone, padri, madri, figli, zii, amici, amori di qualcuno che in quel momento sicuramente stava piangendo, mentre io cercavo foto di montagne innevate che quest’anno no, non si va a sciare. Il pezzo funesto non mi andava più di aprirlo, perché i famosi morti quest’anno saranno pure tanti, ma non sono 993 sconosciuti di cui non so il nome, finiti in un bollettino che tutti i giorni, puntuale, si infila nel notiziario tra il recovery fund e un presepe sommerso.
Un giorno di luglio in quel bollettino c’era una persona che conoscevo, o meglio che ammiravo attraverso gli occhi verdi di sua figlia, che da vent’anni mi guardano in faccia quando ridiamo e piangiamo (sempre e solo io) davanti a una birra (o dieci). Chissà cosa penserà lei del mio articolo sui morti famosi. Chissà se lei ha trovato la forza di dispiacersi anche per Ennio Morricone o Ezio Bosso, dopo aver lasciato andare l’essere umano che più amava in questo mondo, ed essere stata costretta a leggere in quel numero insignificante ed effimero la fine di una storia di vita.

Sono cresciuta in una delle quattro case coloniche di un minuscolo borgo nei pressi di Grizzana Morandi. Mio nonno era un contadino di poche parole che mangiava caramelle alla menta mentre zappava con i pantaloni di velluto a coste, mio zio allevava quaglie e fagiani, che poi lui, mio padre e i miei cugini cacciavano nei campi. Li facevano alzare dal cane e gli sparavano col fucile quando erano a mezz’aria, nel momento in cui assaporavano la libertà dopo una (breve) vita in gabbia. I setter vivevano anche loro in una gabbia tutti insieme, d’estate e d’inverno, quando non erano legati alla catena nell’aia davanti a casa, a guardare un mondo intorno che non potevano raggiungere.
Io ero la più piccola e per questo molto sola, con una testa immaginifica inspiegabilmente libera dai pregiudizi: per me la vita è sempre stata vita, non importa in quale forma. Gli animali erano i miei unici amici. Tutti. Avevo dato un nome alle galline che mi correvano incontro la mattina, avevo un’oca di nome QuiQui che mi seguiva ovunque, accarezzavo i coniglietti, vivevo in simbiosi con Aquila Nera, un piccione caduto dal nido che era cresciuto con me e si appollaiava sempre sulla mia spalla. Adoravo i topolini, davo il cocomero ai maiali e la sera raccoglievo rospi giganteschi che tenevo in braccio e portavo in cameretta terrorizzando mia madre e le mie zie.
C’è stato un momento, una specie di epifania, in cui mi sono chiesta che senso avesse far nascere animali, crescerli e accudirli, persino salvarli qualche volta, per poi un giorno – arbitrariamente – ucciderli senza pensarci troppo, ed eventualmente mangiarli. E quella crudezza, quella superiorità acquisita che ci permette di decidere quando e come interrompere una vita, mi sono resa conto molto presto che non mi apparteneva.

Domenica mi sono svegliata e ho cominciato ad ascoltare Cosmic Dancer dei T-Rex in loop, fino a quando mi sono intristita pensando a quanti altri capolavori avrebbe potuto scrivere Marc Bolan se non fosse morto in un incidente stradale a 29 anni. Lui non c’è più: la sua esistenza terrena si è spenta 43 anni fa. A noi è rimasto questo: la sua voce dolce e perfetta che ripete “dancing” con l’accento inglese, la chitarra che culla quel mantra e si increspa quando entra la batteria.

Stamattina ho trovato finalmente un momento per leggere (mentre salivo cinque piani di scale a piedi, che se vogliamo è una forma di morte) e ho estratto dalla borsa una copia de L’Espresso, che ogni anno dedica il numero dicembre al protagonista dei dodici mesi appena trascorsi. Il personaggio del 2020 – ma dai – è la morte. Ho girato la copertina inquietante con un fotogramma della partita a scacchi de Il settimo sigillo di Bergman, su cui hanno photoshoppato il primo bambino nato nel gennaio scorso. Mi sono fermata sull’articolo di Massimo Cacciari: “Aver cura di morire significa, allora, ‘lavorare’ la propria esistenza nell’attesa che la morte possa rappresentare per noi un compimento”. Per poter affrontare la morte, secondo il filosofo, bisogna non solo vivere la vita tanto intensamente da farsi trovare sempre pronti, ma soprattutto avere due cose: “un Fine e degli Eredi”.

Non avendo figli a cui trasmettere le mie innate qualità (chessò, la mia capacità di reggere l’alcool o l’utilissima maestria nell’afferrare gli oggetti con i piedi) mi sono partiti una serie di pensieri in stile Battiato su cosa resterà del mio transito terrestre. Magari sopravviverà questo blog come monito alle generazioni future, che sulle mie stronzate fonderanno un culto religioso. Forse resteranno i sorrisi che amo fare agli sconosciuti per strada, che prima o poi chiameranno un Tso e quindi lascerò in eredità le mie memorie da una clinica psichiatrica.

Non ho grandi certezze sugli Eredi, il Fine è certamente la felicità. Ed è un lavoro di costanza, fatto di piccoli momenti unici tenuti insieme proprio dalla consapevolezza che non siamo eterni. Forse il segreto per non temere la morte è semplicemente vivere. Guardarsi intorno, raccogliere impressioni, ma anche bere birre, ridere, ascoltare canzoni, diventare le persone che un giorno saranno ricordate da qualcuno che conosce l’esistenza dietro quel numero. Non ci si può pentire di aver dato il massimo, fa soffrire un po’ meno l’idea di separarsi da qualcuno che non avremmo potuto amare di più. Dare tutto per essere pronti al niente.

E ora andate e spargete il Verbo del fancazzismo.