Non m’ama, non m’ama

Tra la dipendenza affettiva e la distanza emotiva corre un fiume di vocal di autoanalisi tra la mia amica Fiammetta e me, che in confronto le lettere di Jacopo Ortis sono una festa dell’amore di Cosmo. Ventuno anni e mezzo di storie personali condivise – metà esatta delle nostre vite – rimbalzano da Parigi a Bologna, afflosciandosi qualche volta contro le maglie di una bassissima rete fatta di fragilità e disistima.

Senza i miei amici starei scrivendo haiku senza senso immersa in una vasca di Xanax. Grazie a loro c’è sempre miracolosamente qualcuno che rimette ordine al caos provocato dal tornado dei miei pensieri, che poi regolarmente vomito qui, in una sorta di diario dove raccolgo quelle 3 o 4 cazzate che mi sembra di aver capito della vita, sia mai che tornino utili a qualcun altro.

Oggi è il giorno numero 3 della mia disintossicazione dalla dipendenza affettiva. Ho smesso di scambiarmi messaggini su Instagram con quello sposato, ho deciso di non scrivere su Messenger a uno che vive in un altro continente, ho finito di covare rancore e nostalgia per il tizio che mi ha ghostata, ho rinunciato a vedere l’uomo che non mi raggiunge mai, ho messo una pietra sopra alla possibilità di condividere qualcosa di più di un’amicizia con il contadino eremita che non esce dal 1984.

Diciamo che nel mio caso non è difficile rintracciare il minimo comune denominatore dei disastri sentimentali: si chiama IMPOSSIBILITÀ. Per evitare drammi e delusioni ho costruito una collana con margherite di ‘non m’ama, non m’ama’, che si sfalda in mille petali ogni volta che tento di indossarla con disinvoltura. Più un uomo è indisponibile e il nostro amore impossibile, più io mi interesso alla partita, incazzandomi poi perché non riesco mai a vincere neanche un misero set.

Le paure governano il mio inconscio e manipolano i miei incontri: mi spingono ad accettare la mediocrità, mi frenano quando rifiuto di accontentarmi, mi mostrano uno scenario in cui invecchierò sola e triste se non mi adatto ad una vita fatta di vacanze al mare, convivenza e venerdì sera liberi. Sei convinta che tutti tradiscano? Esci con uno sposato, perché se sai già che è uno stronzo infedele non potrà deluderti. Temi che un uomo possa invadere i tuoi spazi? Prenditi una sbandata per uno che vive a 5mila chilometri di distanza e vedrai che non metterà mai becco sull’arredamento di casa tua. In fondo basta poco per essere infelici.

Negli ultimi anni le mie paure si sono unite alle mie insicurezze, trasformandosi – delusione dopo delusione – in un muro altissimo che mi tiene al sicuro dal provare qualsiasi sentimento. Al riparo sotto una coltre di “sono tutti stronzi”, coperta a sua volta da un tetto di “quelli non stronzi non me li merito perché faccio schifo”, procedo inanellando prevedibili catastrofi di cui non mi godo né il bello né il cattivo tempo, tanto da qui il cielo è solo grigio e il mio elettrocardiogramma sempre piatto.

Fino a tre giorni fa. Venerdì, in una di quelle epifanie che non si sa se siano dovute ad una qualche congiunzione astrale favorevole o agli effetti postumi del rospo che leccai nel cortile della casa di campagna nel ’94, mi sono chiesta se davvero io sono fatta delle mie paure. Ho iniziato a domandarmi (e a domandare a Fiammetta in un vocal illegale da 8 minuti) se ciò che desidero coincide con quello che i traumi mi spingono a cercare, o se esiste ancora uno spazio di positività tra il mio corpo e la sagoma oscura che lo occupa, nutrita da lutti, abbandoni, mancanze e dolori.

Io voglio una relazione normale: conosci uno, ti chiede di uscire, vai a berci una birra, imbarazzo mentre ti riaccompagna all’auto, limone davanti alla panda a metano, torni a casa sorridendo per sbaglio a tutte le mignotte sui viali e aspetti un suo messaggio che sancisca la bellezza della serata. Quello che succede è invece che conosco uno, ci scriviamo per tre mesi, mi rompo le palle dei messaggini e mi presento a casa sua con la panda a metano, torno a casa fredda come il ghiaccio imprecando contro tutti i geppi che vanno ai 30 sui viali, aspetto il suo messaggio che sancisca che voleva solo scuotere un po’ la sua vita monotona, ma il messaggio neanche arriva perché è molto più facile sparire senza spiegazioni.

In questo percorso ad ostacoli (che io stessa ho piazzato) ho deciso tre giorni fa che non ho più voglia di lasciarmi governare dalle mie paure. Ho fatto un elenco di quel che desidero e deciso che non ho più intenzione di scendere a compromessi e accontentarmi di una versione tarocca dei miei obiettivi. Smetterò di frequentare il Dams se quello che voglio è fare l’avvocato, non cercherò più le mele in farmacia, non proverò a cavare il sangue dalle rape (anche se ho scoperto che dalle barbabietole si può ricavare una proteina simile all’emoglobina), non sceglierò deliberatamente di deludermi per l’ennesima volta con una prevedibile infelicità. Lascerò entrare la luce tra le fessure dei miei muri, farò crescere la parte positiva di me fino a sopraffare l’anima oscura e impaurita che mi preclude la serenità, e – cosa più importante – mi sforzerò di avere fiducia: in me, negli altri, nel futuro, nel lavoro che ho fatto fino ad oggi per avere chiaro quello che sono e quello che voglio. With a little help from my friends.

Eh, lo fa, lo fa

Ci sono donne che pensano che l’amore sia fatto di mazzi di fiori e scatole di cioccolatini, picnic sul panno a quadri in un prato di margherite, lui che le accarezza i capelli al tramonto e le fa trovare un anello nel calice di prosecco. Poi ci sono io. Che probabilmente berrei anche l’anello.

Per me l’amore è l’incastro perfetto di due patologie psichiatriche che si compensano: è un tetris di disagi mentali. C’è la coppia perfetta formata da lei eterna vittima e lui unico vero carnefice, quella in cui lei è sempre malata/fragile/cagionevole e lui costantemente eroe/salvatore/brucewillis; c’è la donna adulta ed autonoma che passa la vita a cazziare il compagno peter pan che a 50 anni si ubriaca con gli amici e vomita per tutta la casa; c’è quella che io chiamo “piccola vecchia”, che fa la ragazzina con la baby vocina anche se è già in menopausa e ha le rughe di Riccardo Fogli, e che generalmente frequenta toy boy che preservino la sua illusione di essere ancora bambina. Ognuno di noi ha una serie di mancanze e conseguenti bisogni più o meno consci (e anche più o meno gravi), e cerca la metà della mela che si incastri perfettamente con la sua, riempiendo quei vuoti come le nocciole tra due quadretti di cioccolato Novi.

Le persone mi chiedono spesso come mai sia finita tra me ed il mio ex dopo dodici anni insieme in cui sembravamo/eravamo la coppia perfetta. Se voglio davvero conversare con il mio interlocutore (tutti sanno che se non mi interessa una discussione adoro rispondere alle domande con frasi fatte stupide tipo “è finito l’amore” o “dai tempo al tempo”, “eh, lo fa, lo fa”, ma questo è un altro post), se davvero desidero parlarne – dicevo – allora cerco di spiegare che probabilmente ci eravamo troppo cristallizzati in ruoli definiti, che questa dinamica, alla lunga, finisce per diventare una gabbia. Dedu ed io ci siamo conosciuti quando io avevo 23 anni e lui 39. In pratica io ero una bambina e lui un uomo. E così è stato per dodici anni: io una bambina e lui un uomo. Quei 16 anni di differenza tra noi, a dire il vero, non mi hanno pesato mai. Fino a quando io, a 35 anni, non ero più tanto una bambina, e non avevo più nessuna voglia di esserlo. Fine dei giochi.

L’amore dura finché dura la patologia. Ci si sveglia una mattina che non si ha più voglia di essere salvate, non si ha più lo stimolo per cazziarlo davanti alle 14 lattine di birre lasciate ad imputridire sul divano, non si ha più voglia di lavargli i calzini e tirarlo giù dal letto, non ci si sente più bambine: si desidera altro. E allora avanti con un nuovo disagio mentale.

Da quando è finita con Dedu mi sono chiesta spesso per quale delle mie patologie sto cercando un compagno: mi domando se ho frequentato uomini iperattivi per vincere la mia pigrizia, se i fricchettoni sono la compensazione degli anni fighetti a Milano, se la lontananza fisica sia la soluzione che trovo per non impegnarmi veramente con qualcuno, se l’indisponibilità come denominatore comune non sia forse – la butto lì – lo specchio della mia inadeguatezza rispetto ad una relazione seria, adulta e matura. A quanto pare, insomma, non sono loro che sono egocentrici, sfuggenti ed incapaci di affezionarsi; sono io che sono accogliente, presente e troppo desiderosa di amare, ma allo stesso tempo impaurita all’idea di relazionarmi davvero con qualcuno, tanto da proiettare tutti i miei bisogni su persone indisponibili. Mi sto auto-sabotando per non riuscire nell’impresa, in un nichilismo amoroso che fa di me una non-principessa moderna: difficile vivere per sempre felici e contenti se lui sta con la moglie o vive a 6mila chilometri di distanza.

La scarpetta, comunque, non è ancora venuto a provarmela nessuno.