Eh, lo fa, lo fa

Ci sono donne che pensano che l’amore sia fatto di mazzi di fiori e scatole di cioccolatini, picnic sul panno a quadri in un prato di margherite, lui che le accarezza i capelli al tramonto e le fa trovare un anello nel calice di prosecco. Poi ci sono io. Che probabilmente berrei anche l’anello.

Per me l’amore è l’incastro perfetto di due patologie psichiatriche che si compensano: è un tetris di disagi mentali. C’è la coppia perfetta formata da lei eterna vittima e lui unico vero carnefice, quella in cui lei è sempre malata/fragile/cagionevole e lui costantemente eroe/salvatore/brucewillis; c’è la donna adulta ed autonoma che passa la vita a cazziare il compagno peter pan che a 50 anni si ubriaca con gli amici e vomita per tutta la casa; c’è quella che io chiamo “piccola vecchia”, che fa la ragazzina con la baby vocina anche se è già in menopausa e ha le rughe di Riccardo Fogli, e che generalmente frequenta toy boy che preservino la sua illusione di essere ancora bambina. Ognuno di noi ha una serie di mancanze e conseguenti bisogni più o meno consci (e anche più o meno gravi), e cerca la metà della mela che si incastri perfettamente con la sua, riempiendo quei vuoti come le nocciole tra due quadretti di cioccolato Novi.

Le persone mi chiedono spesso come mai sia finita tra me ed il mio ex dopo dodici anni insieme in cui sembravamo/eravamo la coppia perfetta. Se voglio davvero conversare con il mio interlocutore (tutti sanno che se non mi interessa una discussione adoro rispondere alle domande con frasi fatte stupide tipo “è finito l’amore” o “dai tempo al tempo”, “eh, lo fa, lo fa”, ma questo è un altro post), se davvero desidero parlarne – dicevo – allora cerco di spiegare che probabilmente ci eravamo troppo cristallizzati in ruoli definiti, che questa dinamica, alla lunga, finisce per diventare una gabbia. Dedu ed io ci siamo conosciuti quando io avevo 23 anni e lui 39. In pratica io ero una bambina e lui un uomo. E così è stato per dodici anni: io una bambina e lui un uomo. Quei 16 anni di differenza tra noi, a dire il vero, non mi hanno pesato mai. Fino a quando io, a 35 anni, non ero più tanto una bambina, e non avevo più nessuna voglia di esserlo. Fine dei giochi.

L’amore dura finché dura la patologia. Ci si sveglia una mattina che non si ha più voglia di essere salvate, non si ha più lo stimolo per cazziarlo davanti alle 14 lattine di birre lasciate ad imputridire sul divano, non si ha più voglia di lavargli i calzini e tirarlo giù dal letto, non ci si sente più bambine: si desidera altro. E allora avanti con un nuovo disagio mentale.

Da quando è finita con Dedu mi sono chiesta spesso per quale delle mie patologie sto cercando un compagno: mi domando se ho frequentato uomini iperattivi per vincere la mia pigrizia, se i fricchettoni sono la compensazione degli anni fighetti a Milano, se la lontananza fisica sia la soluzione che trovo per non impegnarmi veramente con qualcuno, se l’indisponibilità come denominatore comune non sia forse – la butto lì – lo specchio della mia inadeguatezza rispetto ad una relazione seria, adulta e matura. A quanto pare, insomma, non sono loro che sono egocentrici, sfuggenti ed incapaci di affezionarsi; sono io che sono accogliente, presente e troppo desiderosa di amare, ma allo stesso tempo impaurita all’idea di relazionarmi davvero con qualcuno, tanto da proiettare tutti i miei bisogni su persone indisponibili. Mi sto auto-sabotando per non riuscire nell’impresa, in un nichilismo amoroso che fa di me una non-principessa moderna: difficile vivere per sempre felici e contenti se lui sta con la moglie o vive a 6mila chilometri di distanza.

La scarpetta, comunque, non è ancora venuto a provarmela nessuno.

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