Miss Zuccherino

L’amore è l’incastro perfetto di due patologie psichiatriche (o anche tre o quattro eh, amici del poliamore non mi defollowate). L’equilibrio – precario ed effimero – su cui nasce la coppia è proprio lì in quella crepa tra le sicurezze della nostra infanzia, dove è cresciuta come un’erba infestante la dicotomia valore/amore.

Facile guardare gli altri annaspare in mezzo al bisogno di sentirsi utili, comodo giudicare dal proprio divano ogni genere di mania del controllo, narcisismo, spiriti di crocerossina e di patata, insicuri, complessati, Edipi, Medee, e via così nella discesa degli inferi del casumanesimo moderno. Molto meno semplice guardarsi nello specchio ondulato del bagno e darsi una spiegazione valida all’ennesimo fallimento sentimentale, ché la colpa non è mai tua, ma a pensarci bene neanche troppo il merito.

Per conquistare me – SPOILER – basta rivolgermi delle attenzioni. Io sono ero la bambina meno speciale del Paese: brava in tutto ma eccellente in nulla, carina ma non bella (anche se una volta ho vinto il concorso di Miss Zuccherino contro la mia volontà), intelligente ma non geniale, simpatica ma non serve a niente essere simpatiche a 16 anni (e pure a 43 preferirei annoverare tra le mie qualità il metabolismo veloce). Non mi drogavo, non dicevo balle, non andavo male a scuola, non avevo nemmeno troppa voglia di fidanzarmi con qualche adolescente scoordinato e col baffetto. Essere normale spesso ti rende invisibile: non brilli e non oscuri, così i tuoi scelgono di dedicarsi a tutto tranne che a te, perché tu, semplicemente, te la sai cavare da sola.

Così oggi – 43enne carina ma non bella, intelligente ma non geniale, simpatica ma abbiamo già detto dove ce la possiamo mettere la simpatia – vado neanche troppo inconsciamente alla ricerca di qualcuno che si accorga della mia presenza, che trovi speciale la mia mediocrità. Certo, sono ancora in una fase di autostima (e lotta alla gravità) in cui posso permettermi di non farmi bastare due attenzioni basic, altrimenti sarei qui a spiegare cos’è un blog ad un qualsiasi caso umano senza denti davanti conosciuto al pub dopo la quarta birra, ma diciamo che negli anni ho accettato una serie di compromessi, molti dei quali sono descritti con dovizia di particolari nei post precedenti.

Questo mezzo 2022 è stato già abbastanza inclemente con me, anche dal punto di vista sentimentale. Mi sono illusa e disillusa con la rapidità con cui skippo i pezzi dei Negrita nella playlist spotify del rock italiano, e a metà anno mi sento pronta per stilare un primo bilancio del marketing emotivo dei miei disastri.

Nello scandagliare la propria coscienza bisogna essere oggettivi e analitici: rintracciare il minimo comun denominatore, associarlo ad un trauma infantile, moltiplicarlo per tutte le volte che ci siamo cascate, dividerlo per il tempo che abbiamo perso a farci andare bene i fan dei Pooh e i pionieri (sposati) dell’amore libero, ed essere coscienti che il numero di giorni buttati nel cesso è direttamente proporzionale alla nostra consapevolezza di essere cretine.

Gli ingredienti che non mancano mai nel calderone di cazzate che ho fatto ultimamente sono la virtualità e l’egoismo. Con la virtualità ho un rapporto di odio e amore che Catullo spostati. Adoro vedere lo schermo del telefonino che si illumina con un messaggio, mi piace ricevere e inviare foto, canzoni, poesie, like, storie che parlano di noi ma nessuno lo sa, e poi le video-serenate, i vocal di prima mattina con la voce di Amanda Lear, il tutto mentre sono assolutamente libera di fare i cavoli miei nelle condizioni che preferisco: struccata, in mutande, il cane in braccio e una casa che sembra il bagno di XM24. Peccato che l’intensità con cui mi affeziono via whatsapp sia pari soltanto alla rapidità con cui mi stufo di questo genere di rapporto.

Egoismo è praticamente l’anagramma del nome di tutti quelli che ho frequentato quest’anno, e lo scrivo serenamente perché sono talmente egocentrati che non leggerebbero mai un blog scritto da qualcuno di esterno al loro corpo. Gente che ha la tua stessa malattia ma è molto più malata di te, uomini che lavorano solo loro, guidano nel traffico solo loro, hanno ex stronz* solo loro, parenti cagacazzi solo loro, problemi economici solo loro, case da pulire solo loro, mille impegni solo loro. E di tutto questo parlano a te h24, magari mentre sei allettata a causa di un incidente, spaventata, disorientata, ansiata. Ma a loro non importa. Dopo una brevissima fase di ammiccamenti via Instagram, il telefonino comincia a illuminarsi con i vocal delle lamentele quotidiane, le foto sono quelle del pessimo lavoro dell’idraulico, e tu ti rendi conto di aver perso l’istante preciso in cui sei passata dall’essere la principessa del buongiorno alla versione cougar del Telefono Amico.

Seguendo il mio schema di Drama Analytics, la fase successiva consiste nella pacata e oggettiva valutazione del perché cazzo sono così deficiente da mettermi in questa posizione di merda tutte le sante volte. La risposta si trova su quel sentiero impervio a ghiaioso che porta dalla ricerca della mia metà patologica alla consapevolezza che sono diventata una spettatrice qualunque ai drammi inutili della vita di qualcuno, e che dall’altra parte dello schermo dello smartphone potrei esserci io ma anche chiunque altra (sicuramente un tempo c’era la moglie, prima ancora la mamma). A metà strada tra queste due cose io mi perdo regolarmente nell’illusione che essere accogliente e comprensiva mi renda meritevole delle attenzioni che vado cercando, invece sto sovrapponendo la mia faccia a quella di tutta una serie di altre sfortunate donne della loro vita, confuse nell’anonimato di un semplice orecchio che ascolta. In pratica cerco di essere importante per uomini a cui importa solo di se stessi, e così i vuoti emotivi che tento di colmare diventano voragini.

Se avessi la soluzione per disinnescare la dinamica avrei una giacca fucsia sulla quarta di copertina di una decina di bestseller in vetrina da Feltrinelli, invece sono qui vestita come Manuel Agnelli in una stanza che sembra la grotta di Bin Laden, a chiedermi com’è che cerchiamo sempre negli altri quello che solo noi possiamo darci.

L’errore che continuo a ripetere è quello di pensare che l’amore e le attenzioni di qualcuno possano procurarmi quel valore che sento mancare. Sono io che mi vedo mediocre, mi giudico carina ma non bella, mi trovo intelligente ma non geniale. Sono io che mi sminuisco e poi spero che arrivi qualcuno a convincermi che sono ganzissima, annullandomi nel tentativo di dimostrare che lo sono davvero. Le persone che ho frequentato in questo mezzo 2022 hanno conosciuto una versione condiscendente di me, a cui ho smussato certi angoli di insofferenza ed egoismo per apparire inconsciamente più indispensabile ai loro occhi. Non sono più disposta a farlo: voglio essere me stessa anche quando la verità è che mi sono stufata di essere il Telefono Amico. Voglio prendermi la libertà di non rispondere e quella di sfogarmi quando ne sento il bisogno; voglio che accoglienza e consolazione siano reciproche e non dovute, che le mie sofferenze vengano riconosciute e considerate; voglio essere la principessa del buongiorno e non la millesima sostituta di mamma.

E se non troverò la mia metà NON patologica pazienza: mi farò una foto allo specchio con la fascia di Miss Zuccherino e la metterò nella quarta di copertina di questo blog.

Caso (umano) risolto

Ci sono momenti in cui capisco come si sente un attore di Grey’s Anatomy quando gli consegnano un nuovo copione. La (pacata) reazione dev’essere più o meno “Ma come stracazzo è possibile, raga? Ma ANCORA? Ancora la stessa, stupidissima minchiata che il mio personaggio ha fatto in circa 469 episodi delle 167 stagioni andate in onda?”. La mia vita è un’eterna puntata di un medical drama americano, in cui la protagonista non impara mai dagli errori commessi nelle mille puntate precedenti. Con la banale differenza che nella mia grama esistenza non c’è manco un Patrick Dempsey della Cirenaica con cui consolarsi. 

Sono riuscita nell’ardua impresa di farmi ghostare di nuovo. Mentre ero sdraiata con la gamba rotta in scarico e un rosario di oppioidi al collo, mi sono lasciata intortare dal caso umano di turno, che mi ha, nell’ordine, contattata-corteggiata-chiesto il numero-invitata ad uscire-confessato di avere un debole per me da tempo-trombata-lusingata-esortata a pisciare sul (mio?) territorio, per poi sparire nel nulla in una tiepida mattina di maggio, mentre zoppicavo ignara nel reparto ortofrutta della Coop di San Ruffillo. 

Been there, done that. Nella puntata precedente di Fede’s Anatomy la storia era stata decisamente più lunga e intensa, io ero una persona decisamente più cretina e ingenua, e così avevo passato parecchi mesi a imbottirmi di fiori di Bach e piangere disperata, perché chissà cos’avevo fatto di sbagliato per MERITARE di essere scaraventata nell’oblio, mentre sorridevo dal finestrino dall’auto in corsa dell’ammmore. Questa volta non ho versato una lacrima. Ho lasciato passare i primi 4 o 5 giorni di sbigottimento, ne ho passati altri 3 a rimuginare. Ora sono incazzatissima con me stessa per aver speso quelle 72 ore a mettere in dubbio il mio valore, di fronte ad un uomo così egocentrico e infantile da non avere nemmeno il coraggio di dire a voce alta che non ha voglia di frequentarmi.

Il problema dell’essere ghostati è che in automatico si cerca (in noi) una ragione valida che tappi con forza il senso di vuoto lasciato dalla sparizione improvvisa, quella ragione che il fantasma non ha ritenuto fosse il caso di dare. La verità è che un gesto così vile e irrispettoso non ha mai motivazioni sufficienti: una persona che si comporta in questo modo non merita che si perda tempo a domandarsi perché. Le vie dei casi umani sono infinite, conta soltanto che corrano parallele alla mia, e – salvo fermarsi per qualche rapido picnic panoramico – proseguano nella loro direzione senza incontrarsi mai più.

Quando ero bambina avevo un debole per un ragazzino del paese più grande di me: era sempre sorridente, con un’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. A 20 anni stava con la ragazza più bella e stilosa che io avessi mai visto; avrei voluto essere lei per limonare con lui diventare quel tipo di donna così piena di personalità e carattere da ammaliare un uomo tanto intelligente e inarrivabile e limonare con lui. L’altra sera – in una pausa tra un caso umano e l’altro – l’ho incontrato per caso. È sempre sorridente, con quell’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. Abbiamo chiacchierato un po’ mentre mi guardava fisso negli occhi, che in quel momento sentivo fin troppo grandi. Poi, con un filo di imbarazzo, mi ha detto “Ti seguo sempre, mi fai ridere un sacco”. Se n’è andato voltandosi un’ultima volta per sorridermi e lasciarmi lì, a fissare il fondo della birra media e chiedermi per quale cazzo di motivo ho sempre pensato di non meritare uno come lui. Uno che mi guardi negli occhi mentre mi parla, che sia capace di fare un complimento a voce alta, che sia interessante, brillante, bello e abbastanza adulto da non doversi nascondere dietro lo schermo del telefonino, così coraggioso da girarsi a guardarmi mentre mi volta le spalle.

La codarda mi sa che sono io. Sono la leonessa da tastiera che ha deciso di rifugiarsi nella comfort zone di casi umani conclamati con cui non è stato mai necessario mettersi in discussione. Mi sono svalutata e scontata, buttata al collo di gente che avrebbe dovuto gioire per avermi conosciuta e frequentata, e invece si è permessa di sparire nel nulla, instillando in me – anche solo per un secondo – quel senso di umiliazione da rifiuto adolescenziale. La festa delle medie è finita e io non sono più una bambina in costante ammirazione degli altri; ora sono la donna da ammirare perché piena di personalità e carattere, e cerco un uomo non troppo concentrato su se stesso da accorgersene.

E se picnic deve essere, che sia almeno in prato bellissimo vista stronzi.

Goonies never say Covid

Ho il Covid e sono isolata nel mio bilocale al Trappolone dal 27 dicembre. Eviterei di dedicare più dell’introduzione alla saturazione a 93, al Capodanno passato a letto a guardare i Goonies (never say die, ma qualche chitammuort mi è scappato), alla mattina in cui sono svenuta cercando di alzarmi e risvenuta cercando di prendere il telefono (ok, ho capito, non c’è bisogno di insistere), al periodo in cui non sentivo i sapori e mio padre mi faceva la spesa a caso al discount, comprandomi le copie cheap delle cose che mi piacciono e facendomi sentire come le adolescenti che sfoggiano chanel di cartone per emulare la Ferragni. A voi frega solo delle mie peripezie sentimentali, ed eccovi serviti.

Naturalmente l’isolamento è l’ecosistema ideale in cui piantano radici gli amati Leoni da tastiera: non puoi uscire, non puoi vederli, non puoi sorprenderli a cena con la moglie che cerca di ingozzare i figli cresciuti ad ipad e anaffettività. Del resto la cosa ha il suo tornaconto, visto che loro non possono vedere te, non possono soprenderti con il taglio di capelli di Toto Cutugno e i peli sulle gambe di Patti Smith, mentre ti ingozzi di gallette di mais che non sanno di un cazzo, e non puoi nemmeno dare la colpa al Covid.

In queste tre settimane (trascorse prevalentemente a raccogliere merde del mio cane in giardino cercando di non svenirci sopra), ho sentito con sorprendente costanza tre tipologie di uomini sbagliati, per i quali vedo già formarsi le tifoserie tra i miei amatissimi (quattro) followers.

A) L’uomo sposato con figli: in crisi con la moglie, belloccio, mi ama, battute sconce quanto basta per mettermi in imbarazzo, messaggi teneri da ubriaco, un paio di telefonate quando la moglie è al lavoro. Già sfanculato ma insistente. Che è belloccio l’ho detto?

B) L’ex redento: un milione di cose in comune, improvvisamente “issimo” (dolcissimo, preoccupatissimo, amorevolissimo). Mi ha già sfanculata lui, ma chi sono io per non concedere un’ottantaseiesima possibilità a uno che mi ha ghostata? Che è issimo l’ho detto?

C) Lo sconosciuto: single, visto solo una volta ad un concerto, poi ognuno per sé e Covid per tutti. Intelligente, presente, molte cose in comune, compreso l’isolamento. State già gridando all’uomo ideale, ed io potrei guidare il coro, se solo non ci fossimo visti dal vivo per un totale di 8 minuti, in mezzo a circa 400 persone. Che è single l’ho detto?

Ora, prima di dare la soluzione al quiz delle personalità (non è capovolta a fondo pagina solo ed esclusivamente perché non lo so fare), mi permetto di aggiungere un piccolo siparietto “cogliona racconta”, confessando che al giorno 8 la malattia ha avuto la meglio sulla mia dignità (spoiler: mi sto giustificando) e ho mandato un messaggio all’ex (un altro) di cui mi auto-convinco against all odds di essere ancora innamorata da anni. La sequenza è stata più o meno: “sto male, ho bisogno di parlarti” – visualizza e non risponde – due giorni dopo scrive “dai che passa tutto” – seguono 25 foto di suo figlio “guarda che bello che è diventato” – io smiley con sorriso passivo-aggressivo per la rabbia di averla data a uno che pensa sia ok mandarmi le foto del figlio fatto con un’altra nei rari intervalli in cui non russava sotto al mio piumone. No Phil Collins, I can just walk away from him.

Tornando alle cose serie (sì certo, come no). Lo so raga, la A non è una soluzione. Flirtare col belloccio di turno che mi manda messaggi d’amore mentre la moglie è impegnata a lavargli le mutande non è un’opzione. So anche che è sciocco e ipocrita da parte mia pretendere che lui capisca perché lo sfanculo e non voglio continuare a sentirlo: dovrei smettere e basta. Ma nonostante stia cercando di diventare adulta, sono sempre quella che ha coniato la filosofia del Cazzomene e ammetto che qualche volta è ancora elettrizzante perdersi nello spettacolo d’arte varia di uno innamorato di me.

L’opzione B più che minestra riscaldata sembrano i passatelli che mi ha mandato mia madre per il cenone del 31, che quando ho aperto il termos traboccavano fuori come schiuma dopo aver assorbito tutto il brodo. Per quanto rassicurante sia l’idea di riavvicinarsi a qualcuno di cui conosci l’odore, è altrettanto frustrante vivere una relazione con il terrore che la storia si ripeta, che quell’odore sparisca, che tornino lacrime e abbandono al posto della dolcezza e della preoccupazione. Non c’è più fiducia: si è asciugata come il brodo in mezzo a tutte quelle promesse non mantenute.

Mi ci sono voluti 42 anni e tre settimane di isolamento per capire che le opzioni A e B sono il mio consueto modo di guardare la vita che passa dal mio bilocale vista stronzi, senza mai avere il coraggio di scendere per fare una passeggiata con uno che non debba correre a casa dalla fidanzata o a grattarsi le palle h24.

La passeggiata è contenuta nell’opzione C, che mi terrorizza e che sto già tentando in ogni modo di sabotare. Perché non ci conosciamo, perché è un odore nuovo e sconosciuto, perché potrebbe non piacermi come cammina o come mi guarda, e a lui potrei non piacere io (soprattutto se non riesco a tagliarmi il caschetto da Johnny Ramone prima di vederlo). La paura più grande deriva dal fatto che, come le opzioni A e B, anche la C potrebbe andare male, ma al contrario delle altre potrebbe anche andare bene. E allora cosa farei della mia vita? Come dice sempre mia madre, non posso mica smettere di frequentare dei casi umani, poi cosa scriverei sul blog?

Tutti i giorni della nostra vita rompiamo i coglioni per avere qualcosa che semplicemente abbiamo paura di prenderci. Basterebbe il coraggio di accettare la sconfitta e continuare a scrivere di casi umani e stronzi egoisti, oppure ci vorrebbe la forza di accettare di essere felici, ogni tanto. Giusto per cambiare aria al bilocale vista stronzi.

La donna cresciuta dai buzzurri

Gli uomini vengono da Marte, le donne non si sa da dove vengano ma hanno fantasie dettagliate su dove vogliono andare. Mia madre – delicatissima come sempre – mi chiama “la donna cresciuta dai buzzurri”, perché dai 17 anni in avanti ho frequentato una compagnia di soli uomini, a cui sporadicamente si aggiungevano le fidanzate di turno. In un ventennio di alcolismo e fantacalcio, ho capito che le differenze tra generi si originano tutte da una sola, misera ma terrificante, caratteristica femminile: la capacità di crearsi aspettative.

Il divario si crea perché gli uomini hanno una mente semplice ma efficace, il cui ragionamento si basa esclusivamente su fatti realmente accaduti. In pratica, se lei dice A, allora è A. Per una donna, se lui dice A probabilmente intendeva C, perché quella volta in cui è capitato B, lui aveva capito D ma gli sarebbe piaciuto G, però poi se succedesse F probabilmente preferirebbe H. Più che “dolcemente complicate”, siamo una rottura di coglioni. Gli uomini vivono il presente, un po’ come i cani. Le donne vivono il presente solo come trampolino di lancio per una serie di eventi futuri che sono in grado di immaginare nella più minuziosa delle sfumature.

Nel labirinto emotivo in cui tentiamo costantemente di mettere ordine alle cose che ci succedono – a parte il ciclo, il pre-ciclo, l’ovulazione, la pre-ovulazione, la post-ovulazione – c’è una variabile che accomuna tutte le donne: l’incapacità di mettere un freno alla fantasia. Un uomo ci offre la birra al pub e noi ci immaginiamo figli con i nostri occhioni e la sua abilità nell’aggrottare le sopracciglia, stalkeriamo uno su Facebook e per prima cosa scatta la ricerca della data di nascita per verificare l’affinità tra segni zodiacali, quel tizio ci ha sorriso e chissà come verrebbe bene nelle foto delle vacanze in Polinesia. Ovviamente più un uomo concede terreno, più la nostra immaginazione corre libera nelle praterie dei futuri possibili. Se ci messaggia tutti i giorni siamo ad un passo dall’altare, se ci manda una foto del suo cane possiamo spedire gli inviti al matrimonio, se ci presenta agli amici possiamo cominciare a scegliere il nome per il primogenito.

Fantasticare sull’onda dell’entusiasmo non sarebbe nemmeno così grave di per sé, se non fosse per le fottutissime aspettative. Le aspettative sono quella roba per cui nessuna situazione andrà mai e poi mai nel modo in cui te la sei immaginata. Andrà sempre e comunque peggio, per il semplice motivo che tu non l’avevi prevista in quel modo, quindi comunque non va bene. Si chiama mania del controllo, e – molto piacere – io ne sono la regina. Diciamo che all’innata capacità femminile di costruire futuri immaginari, contribuisce in maniera esponenziale la quantità di delusioni sentimentali subite: in pratica più sono disillusa e sfiduciata, più cercherò di calcolare minuziosamente ogni singolo avvenimento, in modo da arginare la sofferenza il più possibile.

Nel Fedemondo la vita procede per “bolle” temporali. Di solito si comincia dalla bolla positiva, dove tutto è felice, amore, bubicachiluli, fiorellini e sorrisoni. In questa fase un uomo potrebbe dire o fare più o meno qualsiasi cosa, tanto per me (cieca/sorda/inebetita) sarebbe comunque un segnale di affetto. Non vergognandomi più di nulla dagli anni Ottanta, sono disposta ad ammettere che in fase bolla positiva mi sono convinta che potesse funzionare con un fan sfegatato dei Pooh (“Perché insistere a cercare uno rock’n’roll come me / la felicità è nell’essere diversi”); ho fatto progetti con uno che sbranava fiorentine sanguinolente ogni volta che cenavamo al ristorante (“In fondo l’animalismo è una mia scelta personale / si impara dall’altro”); ho fantasticato sul futuro con un alcolizzato che spariva per tre giorni di fila e al risveglio ricordava a malapena chi fossi (“Non si vive mica col telefono in mano / alla fine torna sempre da me”).

La bolla positiva viene sempre interrotta bruscamente dall’epifania, ovvero quel ceffone sordo che ti arriva quando capisci che stai veramente pensando di passare il resto della tua vita con uno che intona sotto la doccia Dio delle città e delle immensità. La bolla si è bucata, l’incantesimo è rotto. Seguono delusione, disperazione, pianti a fontana. Poi si entra in una nuova fase.

La bolla negativa è quella in cui rileggo tutto l’accaduto in chiave (secondo me) obiettiva, ovvero dal punto di vista di Darth Vader: la vita è una merda, il genere umano è l’orrore, voglio farmi chiudere le tube, nessuno mi vuole bene, il mondo finisce domani, non ho alcuna ragione per protrarre questa agonia che chiamano vita.

Le donne e l’equilibrio. Sarà il titolo del mio best seller.

Non siamo cattive. È davvero la fottuta Disney che ci ha disegnate così. Sono stati anni di favole romantiche e lieto fine e illusioni sul fatto che l’affetto di un principe azzurro sul cavallo bianco ci avrebbe salvate da streghe cattive, invidie, solitudini, prigioni e avvelenamenti. È la ricerca spasmodica di affetto a renderci cieche di fronte a uomini anaffettivi che ascoltano i Pooh: proiettiamo su di loro quello di cui noi abbiamo bisogno. Poi un giorno ci accorgiamo che quel foglio – senza le nostre fantasie – è candido e immacolato.

Ma poi cosa sarebbe la vita senza fantasia. Non ci sarebbe la musica, non esisterebbero opere d’arte, film, libri, nessuno farebbe sogni, sarebbero svanite le speranze. Fantasticare è il motore del mondo, non rinuncerò a farlo per qualche delusione. Ecco, magari se mi trovassi di fronte un bel quadro di Basquiat avrei meno spazio su cui proiettare.

Eh, lo fa, lo fa

Ci sono donne che pensano che l’amore sia fatto di mazzi di fiori e scatole di cioccolatini, picnic sul panno a quadri in un prato di margherite, lui che le accarezza i capelli al tramonto e le fa trovare un anello nel calice di prosecco. Poi ci sono io. Che probabilmente berrei anche l’anello.

Per me l’amore è l’incastro perfetto di due patologie psichiatriche che si compensano: è un tetris di disagi mentali. C’è la coppia perfetta formata da lei eterna vittima e lui unico vero carnefice, quella in cui lei è sempre malata/fragile/cagionevole e lui costantemente eroe/salvatore/brucewillis; c’è la donna adulta ed autonoma che passa la vita a cazziare il compagno peter pan che a 50 anni si ubriaca con gli amici e vomita per tutta la casa; c’è quella che io chiamo “piccola vecchia”, che fa la ragazzina con la baby vocina anche se è già in menopausa e ha le rughe di Riccardo Fogli, e che generalmente frequenta toy boy che preservino la sua illusione di essere ancora bambina. Ognuno di noi ha una serie di mancanze e conseguenti bisogni più o meno consci (e anche più o meno gravi), e cerca la metà della mela che si incastri perfettamente con la sua, riempiendo quei vuoti come le nocciole tra due quadretti di cioccolato Novi.

Le persone mi chiedono spesso come mai sia finita tra me ed il mio ex dopo dodici anni insieme in cui sembravamo/eravamo la coppia perfetta. Se voglio davvero conversare con il mio interlocutore (tutti sanno che se non mi interessa una discussione adoro rispondere alle domande con frasi fatte stupide tipo “è finito l’amore” o “dai tempo al tempo”, “eh, lo fa, lo fa”, ma questo è un altro post), se davvero desidero parlarne – dicevo – allora cerco di spiegare che probabilmente ci eravamo troppo cristallizzati in ruoli definiti, che questa dinamica, alla lunga, finisce per diventare una gabbia. Dedu ed io ci siamo conosciuti quando io avevo 23 anni e lui 39. In pratica io ero una bambina e lui un uomo. E così è stato per dodici anni: io una bambina e lui un uomo. Quei 16 anni di differenza tra noi, a dire il vero, non mi hanno pesato mai. Fino a quando io, a 35 anni, non ero più tanto una bambina, e non avevo più nessuna voglia di esserlo. Fine dei giochi.

L’amore dura finché dura la patologia. Ci si sveglia una mattina che non si ha più voglia di essere salvate, non si ha più lo stimolo per cazziarlo davanti alle 14 lattine di birre lasciate ad imputridire sul divano, non si ha più voglia di lavargli i calzini e tirarlo giù dal letto, non ci si sente più bambine: si desidera altro. E allora avanti con un nuovo disagio mentale.

Da quando è finita con Dedu mi sono chiesta spesso per quale delle mie patologie sto cercando un compagno: mi domando se ho frequentato uomini iperattivi per vincere la mia pigrizia, se i fricchettoni sono la compensazione degli anni fighetti a Milano, se la lontananza fisica sia la soluzione che trovo per non impegnarmi veramente con qualcuno, se l’indisponibilità come denominatore comune non sia forse – la butto lì – lo specchio della mia inadeguatezza rispetto ad una relazione seria, adulta e matura. A quanto pare, insomma, non sono loro che sono egocentrici, sfuggenti ed incapaci di affezionarsi; sono io che sono accogliente, presente e troppo desiderosa di amare, ma allo stesso tempo impaurita all’idea di relazionarmi davvero con qualcuno, tanto da proiettare tutti i miei bisogni su persone indisponibili. Mi sto auto-sabotando per non riuscire nell’impresa, in un nichilismo amoroso che fa di me una non-principessa moderna: difficile vivere per sempre felici e contenti se lui sta con la moglie o vive a 6mila chilometri di distanza.

La scarpetta, comunque, non è ancora venuto a provarmela nessuno.

Leoni da tastiera

Quando avevo 16 anni – nel Pleistocene – le mie amiche ed io aspettavamo con ansia che arrivasse una dedica per noi su Radio Tombo “lafinedelmondo” e studiavamo per mesi l’outfit adatto alla trimestrale festa al Bar Charlie, in cui possibilmente si finiva per limonare col figo del paese, che poi poteva stupirti con la leggendaria musicassetta piena dei suoi pezzi preferiti, con i titoli scritti a mano solo per te.
Oggi limonare è sopravvalutatissimo, le lettere d’amore sono una perdita di tempo (perché sprecare tempo e carta quando puoi comodamente mandare un messaggio vocale di 47 minuti?), se va bene uno ti gira il link alla sua playlist Spotify e le feste non si organizzano più, tanto il figo del paese lo puoi beccare su Tinder (e forse anche su Grinder). Oggi funziona che conosci uno, ti chiede l’amicizia su Facebook, e da lì in avanti fortunate quelle che sono riuscite ad incontrarlo dal vivo.

Le nuove tecnologie hanno dato vita a quella categoria di uomini che io chiamo “Leoni da tastiera”: ipercomunicativi dietro lo schermo illuminato del loro telefonino, evanescenti nell’interazione dal vivo. Con loro la vita è tutto un tintinnare di messaggini, è tutta una condivisione di oggi ho fatto questo (foto), oggi ho mangiato quello (foto), guarda il mio gatto che dorme (foto), guarda mio figlio che gioca (foto, possibilmente di lui con la prole, generalmente scattata dalla moglie), guarda il tiramisù che mi hanno servito al ristorante (foto). Ti svegli la mattina e c’è già la notifica di un bel messaggio, con allegata la foto del panorama dalla finestra del bagno, nel quale probabilmente ha appena cagato il tiramisù di cui sopra.
Ai whatsapp costanti si aggiungono follow di qua, mi piace di là, cuoricini a destra e sinistra, utilissimi poke: il tutto orchestrato con una professionale padronanza dello psicomarketing dei social, dove il like è strategico ma la sua assenza persino di più.

Il Leone da tastiera si concede dal vivo il minimo indispensabile per lasciarti intendere di avere una relazione con lui: requisito base per poter mandare avanti il teatrino dell’assillo telematico. Poi – solitamente – sparisce. Inspiegabilmente e improvvisamente interrompe la sfrangiatura di coglioni quotidiana per volatilizzarsi da qualche parte nel cosmo, lasciandoti orfana delle sue attenzioni virtuali, a cui alla fine (ma dai!) ti eri pure affezionata. Niente più buongiorno, addio buonanotte, finite le foto, spariti i like, i poke, i follow, scomparsi i vocali di 20 minuti, no more cuoricini per te. Se fino ad ora sembravi essere l’unica ragione di esistere del suo telefonino e dei suoi social account, all’improvviso sei stata gettata nel bidone dell’oblio telematico come un sacchetto di avanzi nell’umido. E questa cosa – diciamolo pure – accende il pulsante di una disperazione senza fine (e senza motivo). Ti manca lui, il suo gatto che dorme, suo figlio che gioca, il tiramisù nella tazza del cesso con panorama. Ti struggi nel senso di colpa, ti domandi cosa può averlo spinto a sparire senza spiegazioni, il tuo cervello cerca con ansia il finale di un’informazione che resterà per sempre incompleta. Ti senti annullata come la modifica ad un file fatta per sbaglio.
Ai tempi delle feste al Bar Charlie, se il figo di turno smetteva di essere interessato a te era costretto a portarti dietro qualche muretto e dirtelo in faccia. Poi c’erano i fifoni (per nulla fighi) che semplicemente ti ignoravano. Oggi il procedimento è più o meno lo stesso, con la differenza che i mezzi a disposizione di un vigliacco che vuole evitarti sono tantissimi, ed invadenti tanto quanto quelli con cui si è virtualmente insinuato nella tua vita e nella tua quotidianità.

Non si può cambiare la natura di un codardo narcisista, si può solo decidere di schivare la pioggia di meteoriti di tutti quelli che non rischiano nulla, che non osano, che non regalano un fiore vero invece di un emoticon, che non vengono a prenderti invece di mandarti 50 messaggi, che non scrivono un biglietto invece di un vocal, che non ti portano a vedere un panorama per abbracciarti, davanti a quel panorama. I Leoni da tastiera offrono dimostrazioni d’affetto effimere e virtuali così come il loro interesse. Lasciamoli regnare su quel piccolo smart-mondo che sono in grado di padroneggiare, e usciamo con un figo vero.

(Se volete approfondire l’argomento, leggete l’articolo che ho scritto su IoDonna)