Un Narcy è per sempre

Le altre postano foto scosciate con scritto “Chi non mi ama non mi merita” e ricevono pioggia di like, manciate di richieste di amicizia e proposte galanti a profusione. Io pubblico sul blog una brillante analisi post-moderna delle carenze affettive in una società contemporanea popolata da egocentrici privi di empatia e ottengo l’approvazione di uno che utilizza lo pseudonimo Narcisista Tossico.

Vero è che la pioggia di like ha la stessa utilità del gratì, mentre un Narciso auto-proclamato è per sempre: ti ammalia nella spirale della sua parlantina ego-riferita e non ne esci nemmeno buttando già una borraccia da due litri di rescue remedy.

Con buona pace di ogni mio proposito di emancipazione dai rapporti virtuali, ho ingaggiato con lui un torneo di riflessioni sui massimi sistemi: in fondo chi sono io per sottrarmi ad una sfida in cui non si vince niente, se non una coscienza aggiuntiva a quella che già ti giudica ogni mattina nello specchio del bagno?

Ieri, ad esempio, mi ha detto che la mia vita è triste. Se questo scambio fosse avvenuto un paio d’anni fa avrei fatto un’ora di autostrada soltanto per ribaltargli addosso il tavolino con sopra spritzaperol e patatine. Ieri, invece, – mentre pucciavo le chiappe in una piscina comunale di montagna dove tutti erano sconvolti dai miei tatuaggi e dal fatto che ero arrivata in auto da sola – mi sono limitata a ribattere pacatamente che la mia esistenza non è affatto misera, anzi.

“Non importa, questa è la mia narrazione di te”, ha risposto Narcy nel tentativo di non arrivare vivo alla grigliata di ferragosto. La sua narrazione di me non è interessata alla mia versione di me, perché la sua narrazione di me è in effetti la sua versione di me, e niente – se non lui stesso – è in grado di cambiarla.

(E ora ditemi che non merito una pioggia di like anche senza foto scosciata).

Riprendiamo le cose della vita da una telecamera in soggettiva: filtriamo i ricordi nelle trame sottili della nostra memoria, osserviamo le persone da dentro a questo corpo, da dietro a questi occhi di misure e colori diversi, collegando cervelli pieni di esperienze, traumi, convizioni uniche e irripetibili. Il nostro sguardo non è mai uguale a quello di qualcun altro, la nostra opinione non aderisce mai perfettamente alla realtà che vede chi ci sta accanto e questo è il bello e il dramma dell’esistenza.

Se il RIVOLUZIONARIO concetto di unicità del pensiero non bastasse, ci si mette Dio, il Cosmo, il destino, la vita a posizionarci in ruoli sempre diversi e a volte complementari, giusto per farci riflettere su quanto siamo inconsapevoli pedine nel gioco sadico dell’esperienza.

Così in una sola epoca (nel mio caso specifico in una sola settimana) possiamo passare dall’essere innamorat* non corrispost* all’altrettanto scomoda posizione di dover dire a qualcuno che non corrispondiamo il suo amore; piangiamo il dramma del distacco totale e ci facciamo consumare dall’eventualità di alimentare l’illusione dell’altro, trattenendoci dal mandare qualunque segnale di vita; accusiamo il Narcy di turno di usare la nostra ammirazione per coltivare il proprio ego e ci aggrappiamo a rapporti senza futuro per ricavarne una dose di autostima. Di volta in volta siamo i buoni e i cattivi, interpretiamo senza troppa consapevolezza il ruolo della fidanzata amorevole e quello dell’amante spietata, siamo trafitti dal dolore e conficchiamo spade di indifferenza in un piccolo cuore di scimmia, lo stesso che anche noi qualche volta abbiamo messo sanguinante tra le mani di un noncurante cavaliere oscuro.

A questo gioco di ruolo che è la vita terrena si aggiunge la narrazione di sé, ovvero la personale percezione della nostra persona fisica e intellettuale, che disperatamente tentiamo di sottoporre agli altri, e che mai e poi mai aderirà alla loro.

Un tempo era il diario segreto a contenere le nostre più riprovevoli esperienze di vita e il racconto soggettivo di queste, oggi esiste instagram per mostrare la propria idea di estetica, facebook per ammaliare il pubblico con discorsi politici e opinioni controverse, twitter per conquistare con la simpatia, un blog dal nome cretino per chi è troppo logorroica per essere contenuta in un limite di parole.

Investiamo una grande quantità di energie nel cercare di manipolare l’opinione che gli altri hanno di noi, invece di accettarla, studiarla, ed eventualmente apprezzarne o disprezzarne il riflesso nel solito specchio del bagno. Potremmo impiegare lo stesso sforzo nel costruirci una personalità degna della nostra narrazione, e poi evitare di perdere tempo con chi ne custodisce una troppo diversa, mortificante, umiliante, incompleta, svilente.

Per questo ieri non sono salita in macchina per andare a dare una scoppola all’amico Narcy, perché sto lavorando alla mia felicità con grande impegno e sacrificio, e in questo periodo ho poca voglia di convincere gli altri che la mia versione di me sia l’unica attendibile. Lui arriverà vivo alla grigliata di ferragosto con qualcuna che vede allegra e soddisfatta, io puccerò le chiappe in una piscina comunale dove il piatto vegetariano è il panino con wurstel, aspettando un suo messaggio con la sua narrazione di me, che in fondo gli piace tanto potersi costruire.

Bella (la) presenza

Ventiquattro mesi fa i social sembravano l’unica salvezza da una vita da reclusi fatta di lievito e serie tv, oggi penso di cancellare i miei profili un giorno sì e l’altro pure. Con una mossa da boomer mi lamenterò del fatto che Facebook è pieno di boomer: gente che si sente libera di commentare qualsiasi cosa (nella vita reale buttereste mai una frase misogina in un dialogo fra altre persone?), che pontifica di argomenti che non conosce (nella vita reale vi mettereste mai a discutere la diagnosi del dentista?), e infine i miei preferiti, quelli che non escono di casa dagli anni Settanta ma “Bologna non è più quella di una volta” o “mancano gli eventi culturali”, che se lo faceste nella vita reale vi darei una sprangata di traverso che vi spaccherei il naso e i denti in una botta sola. Altro che eventi culturali.

I social sono diventati la comfort zone dei disadattati, la capanna della proverbiale sindrome, il rifugio di chi è più bravo con i tasti che con la voce, la vetrina di chi non riesce a vedere oltre il proprio negozietto, allestito ad hoc per attirare clienti con la medesima patologia: la paura di vivere. Il tutto aggravato da due anni di pandemia a lockdown alternato, che hanno fornito ai misantropi la prova provata che si può fare: si può sopravvivere tra quattro mura facendo il pane e l’abbonamento a Netflix, si può mantenere un rapporto dialettico con la ‘propria comunità’ sputando sentenze sotto ai loro post, si può persino amoreggiare, purché – fermi tutti – ci si mantenga al riparo dietro allo schermo deformante di un’app per incontri.

Tanto poi cosa succede? Se ti faccio incazzare cosa mi fai? Se sparisco dalla tua bolla mi vieni a cercare nel World Wide Web? Mandi una denunzia al mio indirizzo ip? Chiami la polizia postale degli stronzi? Mi lasci una brutta recensione su dickadvisor.com? Non ci sono conseguenze all’inadeguatezza virtuale, solo un po’ di pena per chi annaspa in una manciata di relazioni sintetiche e si sente soffocare dalla realtà della carne.

Sorrido pensando a come un tempo gli annunci di lavoro contenessero quasi sempre un paio di termini che oggi scatenerebbero crociate femministe e gare di lancio dell’hashtag: “Bella presenza”. Perché raga, chattare è divertente, i vocali (se non superano il minuto) sono pure intriganti, carini gli emoticon, dolcissime le video serenate, ma ve lo ricordate vagamente com’era tenersi per mano? Avete qualche reminiscenza di quanto fosse confortante abbracciarsi, annusarsi, vedere un sorriso trasformare una faccia? Non era splendidamente spaventoso guardarsi negli occhi prima di un bacio? La bella presenza / il bello della presenza.

Non mi vergogno di niente dagli anni Novanta, di certo non ho paura di ammettere che anche io ho dato il mio contributo alla scienza dei casi umani virtual edition. Complice la serie di sfighe che mi hanno costretta a letto per quattro dei cinque mesi di questo 2022, ho interagito decisamente più sui social di quanto la coda di una pandemia e l’essere costretta a letto a casa dei miei mi abbiano permesso di fare live. Poi ad un certo punto sono uscita. Ho zoppicato verso il pub dove nessuno sa cosa sia Internet e quindi da mesi si chiedevano che fine avessi fatto; ho barcollato a qualche concerto, godendomi dal divanetto l’emozione – per me insostituibile – della musica che si crea in un istante preciso; ho messo le mie mani (gelide) sul viso di un uomo prima di baciarlo; ho riabbracciato i miei colleghi, tenuto per mano mia nipote, sentito il profumo dell’erba e dei fiori di campo. Ho goduto dell’essere viva con tutti i sensi a disposizione.

L’altra sera un amico (conosciuto ad un matrimonio quattro anni fa e ovviamente mai più visto dal vivo) mi descriveva le potenzialità del “metaverso”, ennesima definizione di un universo parallelo tridimensionale, in cui gli esseri umani possono interagire attraverso avatar di se stessi. Lui immaginava con entusiasmo di potersi godere una (pseudo) vita da ventenne anche a 80 anni, io visualizzavo un futuro fatto di corpi chiusi in celle frigorifere a “sognare” di esistere, relazionarsi, fare sesso con corpi perfetti scelti dallo shop online, regalarsi fiori sintetici e respirare aria pixelata.

Quanta paura può fare la realtà per decidere di non volerla più vivere? Quanto spaventa l’idea di essere rifiutati in presenza per convincere a rintanarsi sotto il piumone della virtualità?

Il mio corpo non mi fa impazzire: a volte lo odio profondamente, altre volte lo amo con tenerezza materna. Ma è il MIO corpo e mi rappresenta, è la proiezione esteriore di quello che ho dentro, della mia pigrizia e della mia dolcezza, delle contraddizioni, degli sbagli. Il mio corpo porta i tatuaggi delle cose che ho amato in questa vita, mostra i segni dei traumi, la pesantezza dei dolori, una dolcezza che tengo nascosta. Non cambierei le mie cosce da pallavolista con quelle di un angelo di Victoria’s Secret se il prezzo da pagare fosse sopravvivere alla mia carne nel metaverso. Non rinuncerei ai miei difetti per montare una vetrina Instagram di apparenze se non potessi più sentirmi desiderata così come sono in un abbraccio reale.

Non è l’approvazione degli altri a darmi valore, anzi: la volta in cui ho ricevuto un due di picche mi sono sentita ganzissima per il solo fatto di aver avuto il coraggio di provarci, rigorosamente dal vivo. Non sono i like a renderci brillanti, non sono le chat a farci innamorare, non siamo foto dentro ai telefonini: siamo carne, pelle, odore, sapore. Siamo una voce, uno sguardo, un modo di camminare. Meritiamo qualcosa di più di una serie di messaggi senza tono e di immagini senza dimensione, meritiamo almeno di guardarvi negli occhi davanti a una birra al pub, dove la vita è quella vera perché quasi nessuno sa cosa siano i social. Beata ignoranza e bella presenza.