Avevo 11 anni

Questo post non fa ridere. Non ha il tono sarcastico e irriverente di tutte le storie che avete letto finora sul mio blog. Qualche giorno fa un’amica mi ha detto che in questo mondo soffriamo per alleviare la sofferenza degli altri, e mentre pronunciava queste parole sagge, io pensavo alla quantità di lettere di ringraziamento che ho ricevuto in un anno e mezzo per tutte le cretinate leggere che ho scritto. Perciò ho scelto di utilizzare il mio diario online per il primo passo con cui cerco di liberare il mio cuore dai non-detti: un segreto che ha ramificato dentro di me per trent’anni, togliendomi spazio per respirare. E se non allevierà la sofferenza di nessun altro, sicuramente farà sentire meno sola la bambina che sono stata.

Nel 1990 ero una giovane promessa del nuoto. Avevo appena partecipato ai Campionati Italiani, riempiendo di orgoglio i miei genitori per essermi classificata tra i primi cinquanta (più probabilmente erano felici perché la società ci aveva pagato due stanze separate in un hotel di Pesaro). L’avere un talento non ti rende un bambino come gli altri. La mia vita (a)sociale era scandita da allenamenti estenuanti: avevo un permesso speciale per uscire prima da scuola e precipitarmi in piscina, un giorno a settimana dovevo andare in palestra, i miei capelli erano costantemente bagnati, gli occhi arrossati e la pelle aveva sempre il profumo asprigno del cloro. Agli allenamenti serali la piscina era tutta per noi, nuotavamo in fila uno dietro l’altro e spesso capitava di sfiorare con una bracciata le punte dei piedi di quello davanti o calciare per sbaglio il compagno successivo. Maschi, femmine, adulti e bambini: lo sport non fa distinzioni. Dopo ogni circuito di esercizi ci radunavamo a bordo vasca per ascoltare le istruzioni dell’allenatore, approfittando per spostare sulla fronte gli occhialini stretti e riposare gli occhi, riprendere fiato, respirare.

Quel giorno mi afferrò per la vita. Ricordo che toccavo a malapena, ma lui mi tirò a sé tenendomi “seduta” sulle sue gambe. Avevo 11 anni. Forse mi dimenai, o forse pensai di farlo, ma il suo braccio peloso si strinse in una morsa intorno alle mie, portandomi ancora più vicina alle sue parti intime. Intorno a me tutti gli altri erano concentrati sulle parole dell’allenatore, che io non riuscivo a sentire. Nelle orecchie e nella gola sentivo solo rimbombare il tamburo del mio cuore esasperato dalla paura, cercavo di decifrare quello che mi stava succedendo, mentre un brivido sordo precipitava nel mio stomaco. Al fischio dell’allenatore la coda ripartì come se nulla fosse successo. La morsa si sciolse ed io mi infilai tra due ragazzine nuotando con tutta la forza che avevo nel corpo per scappare da quel momento, mentre le lacrime si mescolavano al cloro.
Successe altre due volte prima che io capissi che non avevo scampo. Per quasi una settimana riuscii a schivare gli allenamenti fingendomi malata, poi i miei genitori cominciarono ad accusarmi di pigrizia, e nessun pianto disperato riuscì a risparmiarmi quel patibolo. Avevo 11 anni. Ricordo con chiarezza le notti insonni passate a cercare le parole giuste per spiegare a mia madre cosa stava succedendo. Non sapevo dare un nome a quei gesti, a quelle parti del corpo, non potevo descrivere una cosa tanto innaturale e lontana dalla vita di una bambina. Un giorno mi feci coraggio, la chiamai in camera e tra le lacrime cercai di descrivere quello che era accaduto. Mia madre si alzò in piedi davanti a me – aveva il grembiule – si girò di spalle e tornando in cucina disse «Te lo sarai immaginato. Da domani torni a nuoto». Poi chiuse la porta e il discorso.

Qualche giorno dopo strinsi la corda dell’accappattoio rosso, attraversai la vaschetta entrando in una nuvola umida e asprigna, e mi misi seduta a bordo vasca ad aspettare rassegnata il calore viscido di quell’abbraccio subacqueo. Lui non c’era. In fondo allo stanzone, dietro ai trampolini, un gruppetto di adulti discuteva animatamente. “Verrà denunciato” è l’unica sequenza di parole che riesco a ricordare, mentre Irene piangeva con le mani sul viso e i suoi genitori la stringevano forte. Mentre l’allenatore e i dirigenti si allontavano, mi avvicinai a quella ragazzina alta e snella e piena di lentiggini, le sfiorai un braccio e con un filo di voce dissi: «Lo faceva anche a me». Lei si voltò con gli occhi pieni di lacrime, mi abbracciò – ero piccolissima – accarezzandomi la testa e rassicurandomi: «Ora non lo farà più, vedrai, né a noi né a nessun altra, puoi stare tranquilla». Quel giorno una ragazzina poco più che adolescente restituì ad una bambina il ruolo di vittima che non aveva mai pensato di meritare.
Ho sempre sognato di essere come lei: di avere la forza per far sentire la mia voce, la sicurezza per farmi ascoltare, la saggezza per consolare qualcun altro. Ho sempre pensato che quello che mi era successo non fosse importante, di non avere diritto di soffrirne, di non doverne parlare con nessuno. Ma oggi posso finalmente essere come Irene: posso parlare, scrivere, raccontare, possibilmente abbracciare virtualmente qualcuno e consolarlo con qualche parola di conforto.

Oggi posso, ma allora no, allora avevo 11 anni.

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