Caso (umano) risolto

Ci sono momenti in cui capisco come si sente un attore di Grey’s Anatomy quando gli consegnano un nuovo copione. La (pacata) reazione dev’essere più o meno “Ma come stracazzo è possibile, raga? Ma ANCORA? Ancora la stessa, stupidissima minchiata che il mio personaggio ha fatto in circa 469 episodi delle 167 stagioni andate in onda?”. La mia vita è un’eterna puntata di un medical drama americano, in cui la protagonista non impara mai dagli errori commessi nelle mille puntate precedenti. Con la banale differenza che nella mia grama esistenza non c’è manco un Patrick Dempsey della Cirenaica con cui consolarsi. 

Sono riuscita nell’ardua impresa di farmi ghostare di nuovo. Mentre ero sdraiata con la gamba rotta in scarico e un rosario di oppioidi al collo, mi sono lasciata intortare dal caso umano di turno, che mi ha, nell’ordine, contattata-corteggiata-chiesto il numero-invitata ad uscire-confessato di avere un debole per me da tempo-trombata-lusingata-esortata a pisciare sul (mio?) territorio, per poi sparire nel nulla in una tiepida mattina di maggio, mentre zoppicavo ignara nel reparto ortofrutta della Coop di San Ruffillo. 

Been there, done that. Nella puntata precedente di Fede’s Anatomy la storia era stata decisamente più lunga e intensa, io ero una persona decisamente più cretina e ingenua, e così avevo passato parecchi mesi a imbottirmi di fiori di Bach e piangere disperata, perché chissà cos’avevo fatto di sbagliato per MERITARE di essere scaraventata nell’oblio, mentre sorridevo dal finestrino dall’auto in corsa dell’ammmore. Questa volta non ho versato una lacrima. Ho lasciato passare i primi 4 o 5 giorni di sbigottimento, ne ho passati altri 3 a rimuginare. Ora sono incazzatissima con me stessa per aver speso quelle 72 ore a mettere in dubbio il mio valore, di fronte ad un uomo così egocentrico e infantile da non avere nemmeno il coraggio di dire a voce alta che non ha voglia di frequentarmi.

Il problema dell’essere ghostati è che in automatico si cerca (in noi) una ragione valida che tappi con forza il senso di vuoto lasciato dalla sparizione improvvisa, quella ragione che il fantasma non ha ritenuto fosse il caso di dare. La verità è che un gesto così vile e irrispettoso non ha mai motivazioni sufficienti: una persona che si comporta in questo modo non merita che si perda tempo a domandarsi perché. Le vie dei casi umani sono infinite, conta soltanto che corrano parallele alla mia, e – salvo fermarsi per qualche rapido picnic panoramico – proseguano nella loro direzione senza incontrarsi mai più.

Quando ero bambina avevo un debole per un ragazzino del paese più grande di me: era sempre sorridente, con un’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. A 20 anni stava con la ragazza più bella e stilosa che io avessi mai visto; avrei voluto essere lei per limonare con lui diventare quel tipo di donna così piena di personalità e carattere da ammaliare un uomo tanto intelligente e inarrivabile e limonare con lui. L’altra sera – in una pausa tra un caso umano e l’altro – l’ho incontrato per caso. È sempre sorridente, con quell’aria un po’ folle, sportivo e pieno di interessi. Abbiamo chiacchierato un po’ mentre mi guardava fisso negli occhi, che in quel momento sentivo fin troppo grandi. Poi, con un filo di imbarazzo, mi ha detto “Ti seguo sempre, mi fai ridere un sacco”. Se n’è andato voltandosi un’ultima volta per sorridermi e lasciarmi lì, a fissare il fondo della birra media e chiedermi per quale cazzo di motivo ho sempre pensato di non meritare uno come lui. Uno che mi guardi negli occhi mentre mi parla, che sia capace di fare un complimento a voce alta, che sia interessante, brillante, bello e abbastanza adulto da non doversi nascondere dietro lo schermo del telefonino, così coraggioso da girarsi a guardarmi mentre mi volta le spalle.

La codarda mi sa che sono io. Sono la leonessa da tastiera che ha deciso di rifugiarsi nella comfort zone di casi umani conclamati con cui non è stato mai necessario mettersi in discussione. Mi sono svalutata e scontata, buttata al collo di gente che avrebbe dovuto gioire per avermi conosciuta e frequentata, e invece si è permessa di sparire nel nulla, instillando in me – anche solo per un secondo – quel senso di umiliazione da rifiuto adolescenziale. La festa delle medie è finita e io non sono più una bambina in costante ammirazione degli altri; ora sono la donna da ammirare perché piena di personalità e carattere, e cerco un uomo non troppo concentrato su se stesso da accorgersene.

E se picnic deve essere, che sia almeno in prato bellissimo vista stronzi.

Lobotomia frontale

Il modo in cui Andrea conosce le persone è unico e invidiabile. Vorrei che tutti gli uomini (uno solo) per cui mi prendo una leggera sbandata (l’Amore eterno) fossero un po’ come lui. Magari non come lui quando mi pianta sola in un vicolo buio del centro perché ha trovato una sbarba con cui andare a bere una sciocchezza, o come lui quando si dimentica che poche ora prima gli ho confidato una cosa per me di vitale importanza; diciamo più come lui quando incontra una che lo gasa per i più disparati motivi, e le chiede di uscire con una naturalezza che io non ho nemmeno con la cassiera della coop che sa cosa mangio fin dai tempi del liceo.

Andrea si relaziona alle persone con l’ingenuità di un bambino: si interessa alle storie degli altri, ai loro gusti, ai libri che leggono; fa attenzione a come usano il linguaggio (poi sospira «aaahhh la lingua italiana!»), canta canzoni in coro, guarda foto, conosce, ascolta, percepisce segnali e reazioni. Io lo so perché a volte sono presente. Sono l’amica vecchia che si porta dietro (solo perché io ho lo scooter, due caschi e abitiamo vicini), e credo che la mia presenza in realtà lo aiuti con le ventenni, perché pensano che e io sia la madre o l’amica milf, cosa che le fa stare più tranquille. Andrea comunque non è mai viscido né marpione. Certo: vuole inzippare pure lui come tutti gli altri, ma non lo dà mai a vedere. A fine serata – se non mi abbandona nel vicolo – torniamo allo scooter e lui ha sempre un contatto, un intorto o, come minimo, una nuova amicizia.
Un tempo ero così anch’io: ingenua, spontanea, libera da condizionamenti e da giudizi. A volte lo sono ancora, molto raramente. Guardo Andrea e penso che lui ha 35 anni, io ne ho 41 e mi sento vecchia; lui ha un sacco di cose da dire, io mi sento vuota; lui è bello, io ultimamente mi sento un bagaglio a mano dell’easyjet che devi pure pagare per imbarcarlo.

Ieri ho letto per caso la frase “Chi cerca col sorriso ha già trovato”. Andrea cerca col sorriso, io cerco con la tigna. Un po’ perché a 40 anni ti inculcano l’idea che se esci a bere una sciocchezza con uno non è solo per conoscerlo ed eventualmente tornare a casa da sola con una nuova amicizia; se esci con qualcuno lo devi fare necessariamente per SISTEMARTI: sposarti con l’abito bianco, fare tre o quattro figli, andare a vivere in un appartamento con i mobili grigi e i gerani sul balcone, cucinare salsiccia e patate e fare le cene a quattro con un’altra coppia di geppi. Così io, che odio il bianco e vivo nella casa dei puffi con i mobili gialli, amo le piante verdi e sono vegetariana, faccio un filino fatica a trovare la voglia di aprire il mio cuoricino di latta e mostrare quei quattro sentimenti avvizziti che sono sopravvissuti ad anni di siccità.
Se uno mi sorride mentre gli porgo le tagliatelle almeno quattro colleghi si precipitano a farmi notare che ne vuole, se a cena mi metto a parlare con un commensale di sesso maschile tutti si aspettano che finiremo al Trappolone insieme, e quando uno mi offre una birra al pub sicuramente mi vuole dare due colpi (ok, ammetto che in quest’ultimo caso potrebbe essere vero).

Le relazioni umane sono condizionate dall’idea che l’amore – o per lo meno inzippare – sia il fine ultimo delle nostre esistenze. Il retaggio che ogni interazione sia l’opportunità per trovare l’anima gemella o il trombamico ha sabotato la spontaneità con cui un tempo facevo amicizia anche con i muri, e magari in quell’epoca conoscevo le persone prima di perdere la testa per loro. Oggi conoscersi è sopravvalutato, parlare è uno spreco di tempo. Ci si prende una sbandata per un profilo Instagram su cui si proietta la propria idea di compagno, si scopre tutto da facebook, si legge la bio, si sa già che musica ascolta da spotify. Non c’è bisogno di uscire insieme, siamo già insieme da qualche parte nel world wide web. Io di questo meccanismo ne ho piene le palle, eppure ne sono vittima e carnefice. Sono succube di tutti i cazzari e tecno fenomeni di cui ho già ampiamente descritto le gesta (i leoni da tastiera, i ghost, gli zombie), ma sono anche diventata sterile nelle relazioni umane fuori da un telefonino. Soprattutto con quelli (uno solo) che mi piacciono.
Ammetto di essere il tipo di donna spigliata ed esuberante che quando parla con un figo diventa un essere mono neuronale incapace di esprimere frasi di senso compiuto. Resto lì con lo sguardo vitreo perso nel vuoto come Sue Ellen che guarda l’orizzonte in Dallas, mentre lui magari pensa che sarei pure carina, peccato solo per la lobotomia frontale che ho subito qualche minuto fa.
L’altra sera, per invertire la tendenza, ho portato io Andrea con me ad incontrare uno che mi piace, per avere una sua opinione sul mio atteggiamento estremamente lampante, sui miei sorrisi evidenti, le mie mosse chiaramente ammiccanti, il mio atteggiamento trasparente nei confronti di questo malcapitato essere umano. Ha detto Andrea che io non faccio assolutamente NIENTE. L’apertura di uno spiraglio sul mio mondo interiore – che io vivo come uno sforzo soprannaturale – agli altri è totalmente invisibile. Questo sbilanciamento nella percezione della mia volontà significa che ogni volta in cui mi lamento di incontrare solo casi umani, perdo di vista il fatto che il caso umano sono io. Sono io quella che non sa relazionarsi, sono io che non mi apro, sono io il gorilla silverback. Sono io che non ho il coraggio di essere diretta e di chiedere ad un uomo che mi piace di andarci a bere un caffè, e parlare di libri, dei suoi gusti, cantare canzoni in coro e ascoltarlo. Con la consapevolezza che potrei tornare a casa da sola con o senza il suo numero, ma che mi sarei comunque divertita a far entrare un po’ di luce in quella caverna che ho al posto del cuore. Oppure suggerisce sarcasticamente Andrea che potrei continuare a fare quello che ho fatto fino ad ora: NIENTE.

Rapirlonzola

La comfort zone è un bilocale accogliente vista stronzi che ti sei costruita in anni di batoste, impilando mattoni di paranoie tenuti insieme da uno strato melmoso di cazzovolete. A 41 anni posso affermare con soddisfazione che la mia vita emotiva si svolge all’interno di un resort mentale di lusso, protetto da mura di cinta che manco tra Israele e Palestina, con un ponte levatoio mai levato, circondato da un fossato pieno di coccodrilli.

Dall’interno della torre d’avorio, sprofondata in una morbida poltrona di auto-commiserazione, posso osservare/giudicare le vite degli altri, mentre accetto con clemenza i miei difetti e mi crogiolo nelle imperfezioni della mia esistenza, ovviamente lamentandomi con costanza ed inveendo contro l’accanimento della sorte nei miei confronti.
Può capitare che uno sprovveduto viandante – accecato dal bagliore della mia torre – si fermi a sbirciare attraverso qualche finestra che ho inavvertitamente lasciato aperta per areare il locale; a quel punto sbucano le lance, si alza il fuoco, esce il drago, ed io corro a rasarmi la testa a zero che non sia mai che mi caschi la treccia ed arrivi a terra fino al principe.

Anni trascorsi a selezionare meticolosamente casi umani con cui è impossibile instaurare una relazione sentimentale per tentare di instaurarci una relazione sentimentale, e poi lamentarsi con le amiche (e qui) di quanto sia impossibile instaurare una relazione sentimentale con certi casi umani. Mesi e mesi ad interagire solo ed unicamente con uomini sposati, fidanzati, padri plurimi, preti cattolici, domandandosi cos’ha lei (o il Signore) più di me, a parte la buccia di stare con uno stronzo del genere. Capita però (di rado), che durante la passeggiata inferenziale nei boschi dei disagiati, si incontri un uomo NORMALE, finito per sbaglio nel girone degli squilibrati affettivi. Capita poi (molto di rado) che questo esemplare maschile sia single, quasi coetaneo, pieno di amici ed interessi, belloccio, educato, piacevole nella conversazione, ben vestito, apparentemente equilibrato. Capita anche (quasi mai) che l’essere umano in questione mostri un vago interesse di natura sentimentale nei miei confronti, nonostante tutti i miei chiari segnali di abbandonare la nave.

A quel punto scatta il piano P. Dove P sta per PARANOIE.
Il mio cervello – incredulo di fronte a cotanta fortuna – comincia a produrre una serie di piccole immaginette mentali taglienti che vanno a conficcarsi nel pensiero di una possibile relazione affettiva. Le paranoie si propagano a partire dal piano estetico con la visione di noi due seduti sulle sdraio alla spiaggia BBK di Punta Marina: io che mi spalmo la protezione 50 sulla panza ustionata, mentre lui – lucido e ambrato – guarda la passerella di milf rinsecchite color cuoio con perizoma a filo interdentale, capelli di stoppa e bikini glitterato. Dall’idillio marittimo passo con scioltezza alle vasche a braccetto in via Indipendenza, con tutte le sbarbe 21enni in shorts inguinali che mi guardano e commentano basite come sia possibile che un bidone dell’umido stia con quel figo pazzesco (true story accaduta più volte quando accompagnavo il mio amico Beppe Bicipite a fare shopping, e le commesse mi guardavano con odio e disgusto come se qualcuno avesse vomitato sulla sedia: un trauma che non riuscirò mai a superare).
Le paranoie procedono investendo la mia casa, troppo infantile, troppo colorata, troppo piccola; il giardino non ha nemmeno l’impianto di irrigazione a goccia, in camera da letto ho un ragno a cui ho dato un nome e un faretto fulminato da quattro anni, troppi jeans, niente aria condizionata, e come potrebbe mai un uomo amare una donna che possiede quattro pellicciotti sintetici? E poi il mio cane ha l’alito fetido, dorme in testa alla gente tipo colbacco, è morboso quanto me e ha un’inspiegabile passione per le zucchine crude. Non sono intelligente, forse lo ero, ma poi mi sono bruciata le cellule guardando Uomini e Donne in quarantena, non ho idea di cosa fare della mia vita, non ho nemmeno un tailleur da donna vera, non ho mai fatto la pulizia del viso e ho scoperto l’esistenza dei messaggi Instagram soltanto un mese fa. Sono simpatica, sagace, carina, so essere una buona amica, ma non sono amabile. Ci sono troppe cose da accettare per amare me, troppi compromessi, troppe ammaccature, troppi difetti, troppe storture che solo io posso capire ed accarezzare nel mio morbido salotto di auto-aiuto.

Così di fronte al potenziale principe sparisco, mi rinchiudo in un minimondo di cui sono la principessa sola ma felice, mi lamento degli innocui casi umani che mi offrono materiale per le mie storie, mi rifugio nell’abbraccio di amici eterni e non giudicanti. Scappo senza lasciare traccia allo sfortunato essere umano che forse avrebbe dormito volentieri col mio cane in testa, e magari sarebbe stato capace di montarmi un impianto di irrigazione in giardino.
Chissà se un giorno qualche viandante riuscirà a vincere il drago, spegnere il fuoco, superare i coccodrilli, scassinare il ponte levatoio e raggiungere me e le mie pellicce sintetiche. O magari per allora i capelli saranno cresciuti abbastanza per lanciare una treccia.

Il lupo solitario

A tutte noi diversamente sbarbe nate negli anni Settanta è capitato di uscire a bere una sciocchezza con uno che dichiaratamente ci trova bellissime, intelligentissime, brillantissime, simpaticissime, sexyssime. Poi è capitato che i drink diventassero due, o tre (o dodici per chi come me ha fatto la barista in adolescenza e regge più di un camionista), e allora che fai non ci mangi qualcosa per fare il fondino? E un Cynar con ghiaccio non ce lo metti per digerire la cena vegan? E l’alba al Pratello non la vuoi vedere? Insomma, dopo sette ore di complimenti superlativi e dopo aver esaurito le riserve alcoliche del Lussemburgo, ti trovi davanti al motorino – ove lui cavallerescamente ti ha accompagnato – ad attendere il limonissimo che ti faccia dimenticare tutti i casi umani su cui stai scrivendo un tomo di 900 pagine.

E invece no.

Goffo abbraccio con accenno di stretta in vita e bacino sulla guancia sono quel che ti meriti per aver volontariamente ignorato i segnali che ti avrebbero risparmiato l’ennesima uscita inutile. Il messaggino successivo “Grazie per la serata, sono stato benissimo” è il resto che ti meriti per non avergli fracassato il cranio sul quadrante dello scooter al primo accenno di diniego.

Il lupo solitario è un altro grande classico over 40. Nell’80% dei casi vive ancora con mamma o se ne è separato da poco (per trasferirsi comunque in una sistemazione temporanea/impossibile, che gli permetta di tornare da lei tutti i weekend, pur mantenendo una parvenza di autonomia). Bello e single fin dagli anni Settanta, il caso umano in questione di solito ha una quantità illimitata di interessi che aggiorna con costanza e che sono tutti accomunati da un’unica caratteristica: si praticano in solitudine. Surf, tennis, ciclismo, arrampicata, jogging e snowboard sono gli sport preferiti, portati fino al limite della boxe e delle arti marziali varie, di cui però sopporta a fatica il grave peso degli allenamenti collettivi. È esperto di alberi, piante, fiori, animali, vita delle api, musica rock, metal, pop, suona 85 strumenti (ma mai fatto parte di un gruppo), conosce i cocktail, i cani, le montagne, guarda tutte le partite di calcio, basket, hockey su ghiaccio e paddington, sa tutto su spiagge e boschi, ha sofferto di attacchi d’ansia o di panico e le sue vacanze preferite – ovviamente – sono in moto. Il lupo solitario di solito lavora il minimo indispensabile per mantenersi, ma in tutto il resto del tempo è impegnatissimo con i suoi IRRINUNCIABILI ventimila hobby, i suoi settecento amici bisognosi alcolizzati ed ogni fine settimana – va da sé – DEVE cmq trovare una scusa per tornare a casa (da mamma).

In genere dichiara con stupefacente sicumera di volersi innamorare perdutamente, poi però – chissà come mai – nessuna donna è mai all’altezza degli standard (di mamma) che si è auto-imposto. La conquista di questo esemplare maschile è la più difficile, poiché la sua attenzione è sempre rivolta esclusivamente ai suoi amici, alla sua birra, ai suoi messaggi (di mamma).

Una volta attirato con forza nella trappola della seduzione, bisogna agire con fermezza e sbatterlo al muro e limonarlo duro, prima che lui possa cominciare a pensare che “in fondo boh, vorrei che si vestisse diversamente” (come mamma), “non voglio convivere e lasciare casa mia” (e mamma), “cazzo, questa non mangia carne quindi niente lasagne” (di mamma) e così via, in un turbine di paranoie che ci riporta irrimediabilmente a quel goffo abbraccio davanti al motorino: il momento preciso in cui tu ti rendi conto di aver schivato un precipizio.

Il lupo solitario, come il vino buono, migliora col tempo: di solito diventa un fascinoso cinquantenne brizzolato e abbronzato, con un buon profumo e la camicia stirata leggermente aperta. Nonostante i numerosissimi flirt, non avrà mai avuto una vera fidanzata, perché in fondo lui non ha mai voluto impegnarsi davvero. Un giorno tornerà da una vacanza solitaria con la moglie cubana, che lo lascerà dopo pochi mesi gettandolo nella disperazione. E – guarda un po’ – di nuovo tra le braccia di mamma.