Goonies never say Covid

Ho il Covid e sono isolata nel mio bilocale al Trappolone dal 27 dicembre. Eviterei di dedicare più dell’introduzione alla saturazione a 93, al Capodanno passato a letto a guardare i Goonies (never say die, ma qualche chitammuort mi è scappato), alla mattina in cui sono svenuta cercando di alzarmi e risvenuta cercando di prendere il telefono (ok, ho capito, non c’è bisogno di insistere), al periodo in cui non sentivo i sapori e mio padre mi faceva la spesa a caso al discount, comprandomi le copie cheap delle cose che mi piacciono e facendomi sentire come le adolescenti che sfoggiano chanel di cartone per emulare la Ferragni. A voi frega solo delle mie peripezie sentimentali, ed eccovi serviti.

Naturalmente l’isolamento è l’ecosistema ideale in cui piantano radici gli amati Leoni da tastiera: non puoi uscire, non puoi vederli, non puoi sorprenderli a cena con la moglie che cerca di ingozzare i figli cresciuti ad ipad e anaffettività. Del resto la cosa ha il suo tornaconto, visto che loro non possono vedere te, non possono soprenderti con il taglio di capelli di Toto Cutugno e i peli sulle gambe di Patti Smith, mentre ti ingozzi di gallette di mais che non sanno di un cazzo, e non puoi nemmeno dare la colpa al Covid.

In queste tre settimane (trascorse prevalentemente a raccogliere merde del mio cane in giardino cercando di non svenirci sopra), ho sentito con sorprendente costanza tre tipologie di uomini sbagliati, per i quali vedo già formarsi le tifoserie tra i miei amatissimi (quattro) followers.

A) L’uomo sposato con figli: in crisi con la moglie, belloccio, mi ama, battute sconce quanto basta per mettermi in imbarazzo, messaggi teneri da ubriaco, un paio di telefonate quando la moglie è al lavoro. Già sfanculato ma insistente. Che è belloccio l’ho detto?

B) L’ex redento: un milione di cose in comune, improvvisamente “issimo” (dolcissimo, preoccupatissimo, amorevolissimo). Mi ha già sfanculata lui, ma chi sono io per non concedere un’ottantaseiesima possibilità a uno che mi ha ghostata? Che è issimo l’ho detto?

C) Lo sconosciuto: single, visto solo una volta ad un concerto, poi ognuno per sé e Covid per tutti. Intelligente, presente, molte cose in comune, compreso l’isolamento. State già gridando all’uomo ideale, ed io potrei guidare il coro, se solo non ci fossimo visti dal vivo per un totale di 8 minuti, in mezzo a circa 400 persone. Che è single l’ho detto?

Ora, prima di dare la soluzione al quiz delle personalità (non è capovolta a fondo pagina solo ed esclusivamente perché non lo so fare), mi permetto di aggiungere un piccolo siparietto “cogliona racconta”, confessando che al giorno 8 la malattia ha avuto la meglio sulla mia dignità (spoiler: mi sto giustificando) e ho mandato un messaggio all’ex (un altro) di cui mi auto-convinco against all odds di essere ancora innamorata da anni. La sequenza è stata più o meno: “sto male, ho bisogno di parlarti” – visualizza e non risponde – due giorni dopo scrive “dai che passa tutto” – seguono 25 foto di suo figlio “guarda che bello che è diventato” – io smiley con sorriso passivo-aggressivo per la rabbia di averla data a uno che pensa sia ok mandarmi le foto del figlio fatto con un’altra nei rari intervalli in cui non russava sotto al mio piumone. No Phil Collins, I can just walk away from him.

Tornando alle cose serie (sì certo, come no). Lo so raga, la A non è una soluzione. Flirtare col belloccio di turno che mi manda messaggi d’amore mentre la moglie è impegnata a lavargli le mutande non è un’opzione. So anche che è sciocco e ipocrita da parte mia pretendere che lui capisca perché lo sfanculo e non voglio continuare a sentirlo: dovrei smettere e basta. Ma nonostante stia cercando di diventare adulta, sono sempre quella che ha coniato la filosofia del Cazzomene e ammetto che qualche volta è ancora elettrizzante perdersi nello spettacolo d’arte varia di uno innamorato di me.

L’opzione B più che minestra riscaldata sembrano i passatelli che mi ha mandato mia madre per il cenone del 31, che quando ho aperto il termos traboccavano fuori come schiuma dopo aver assorbito tutto il brodo. Per quanto rassicurante sia l’idea di riavvicinarsi a qualcuno di cui conosci l’odore, è altrettanto frustrante vivere una relazione con il terrore che la storia si ripeta, che quell’odore sparisca, che tornino lacrime e abbandono al posto della dolcezza e della preoccupazione. Non c’è più fiducia: si è asciugata come il brodo in mezzo a tutte quelle promesse non mantenute.

Mi ci sono voluti 42 anni e tre settimane di isolamento per capire che le opzioni A e B sono il mio consueto modo di guardare la vita che passa dal mio bilocale vista stronzi, senza mai avere il coraggio di scendere per fare una passeggiata con uno che non debba correre a casa dalla fidanzata o a grattarsi le palle h24.

La passeggiata è contenuta nell’opzione C, che mi terrorizza e che sto già tentando in ogni modo di sabotare. Perché non ci conosciamo, perché è un odore nuovo e sconosciuto, perché potrebbe non piacermi come cammina o come mi guarda, e a lui potrei non piacere io (soprattutto se non riesco a tagliarmi il caschetto da Johnny Ramone prima di vederlo). La paura più grande deriva dal fatto che, come le opzioni A e B, anche la C potrebbe andare male, ma al contrario delle altre potrebbe anche andare bene. E allora cosa farei della mia vita? Come dice sempre mia madre, non posso mica smettere di frequentare dei casi umani, poi cosa scriverei sul blog?

Tutti i giorni della nostra vita rompiamo i coglioni per avere qualcosa che semplicemente abbiamo paura di prenderci. Basterebbe il coraggio di accettare la sconfitta e continuare a scrivere di casi umani e stronzi egoisti, oppure ci vorrebbe la forza di accettare di essere felici, ogni tanto. Giusto per cambiare aria al bilocale vista stronzi.

Toto, I have a feeling we are not in Kansas anymore

In una settimana della mia vita succedono cose che agli altri capitano in una decina d’anni. O anche mai.

Nell’ultimo mese hanno arrestato l’editore della testata per cui lavoravo, messo tutti i dipendenti in solidarietà, minacciato morte e pestilenze, stabilito che tutti i contratti a termine sarebbero stati terminati. Game over. Tutto questo a circa 5 settimane dal rinnovo del mio contratto.

Mentre cercavo di calcolare quanta disoccupazione NON avrei potuto prendere con lo splendido cococo che mi avevano fatto, e facevo un rapido elenco delle bestemmie note e di quelle che avrei potuto rapidamente inventare, ho ricevuto l’inaspettata chiamata di qualcuno che cercava me. Per un lavoro. In un teatro. Toh.

La settimana successiva – un paio di colloqui dopo – è passata all’insegna di pianti disperati con i miei (ex) capi e gli (ex) colleghi, lettere strappalacrime, baci perugina lasciati sulle scrivanie, io che singhiozzo alla Coop di San Ruffillo dove ormai c’è la mia foto segnaletica nel reparto ortofrutta, io che penso che la vita sia una merda, morte e pestilenze e cococo da terminare come Daniel La Russo quando Johnny gli rompe una gamba e non esiste la pietà in questo dojo, no sensei.

Ho cominciato il lavoro nuovo a sole 11 ore di distanza dallo straziante addio a quello vecchio. E no, non è l’inizio di una serie Netflix sulle droghe psichedeliche. A metà mattina ancora mi scendeva una lacrima mentre pensavo alla tazzina sporca che simbolicamente mi ha regalato il mio (ex) capo, per ricordarmi – ha detto – il grande affetto che ci lega, o forse per non dimenticare – dico io – che tutte le mattine gli facevo il caffè dopo aver scrostato quella tazzina dallo zucchero caramellato del giorno prima.

Le consapevolezze arrivano all’improvviso esattamente come le sfighe. Ed entrambe segnano il momento dopo il quale non riuscirai più a sentirti esattamente come ti sentivi prima. In un momento imprecisato di quel primo giorno, essere lì, dentro a quel teatro con i soffitti altissimi e i pavimenti a scacchi di Twin Peaks, mi è sembrato semplicemente giusto; mi sono sentita al mio posto.

Magari – dopo aver inondato di lacrime amare il banco frigo della Coop – l’uragano che è la mia esistenza doveva lasciarmi cadere proprio ad Oz, dove con tre colpi di tacco dei Dr Martens ricomincio tutto da capo e imparo qualcosa di completamente nuovo e inesplorato, del mondo e di me stessa.

Chissà perché ci risulta sempre così difficile lasciarci trascinare da quello che succede. Chissà perché facciamo l’immane fatica di opporci alla vita nel tentativo inutile di controllarla. Gli esseri umani sono talmente presuntuosi da credere di poter decidere il proprio destino, da pensare che sia più semplice, o forse meno doloroso, illudersi di tenere le redini di questa passeggiata sulla terra. Eppure sofferenze, lutti, pandemie avrebbero dovuto insegnarci che non controlliamo proprio una beata fava.

Io in questa tarda adolescenza pre-menopausa ho deciso che sono troppo stanca per trattenere la vita sui binari della mia volontà: lascerò che il treno vada dove vuole – magari deragli – mentre io mi godo il viaggio il più serenamente possibile. Accetterò quello che succede, affronterò sfighe e problemi, troverò il bello nelle cose che mi capitano. Del resto l’ho sempre fatto, solo con addosso la fatica di aver cercato invano di condurre il gioco.

No, no, no, grazie a te

L’altro giorno un amico mi ha chiesto qual è il mio “tipo”. E siccome sono una persona estremamente equilibrata e serena, l’innocente domanda ha scatenato in me una spirale di riflessioni che mi hanno tenuta in casa a guardare il soffitto tutto il weekend (quello e il fatto che il mio cane ha pensato bene di mangiare un’ape, diventando la versione canina di Sloth dei Goonies) (e un pochino anche il fatto che sono uscita a ubriacarmi tutte le sere della settimana tornando a casa in condizioni pietose al grido “Sono il diavolo, sono Bin Laden”).

Tutti noi abbiamo in testa un’idea di quello che ci piace e che ci renderebbe felici, ma proprio perché è una NOSTRA idea, forse non dovremmo fidarci. O meglio: siamo sicuri di sapere che tipologia di persona potrebbe renderci sereni e appagati, farci trascorrere momenti indimenticabili, prendersi cura di noi e di un cane divora-insetti, passare i weekend al nostro fianco mentre rimuginiamo sul senso della vita?

I miei amici, ad esempio, sono inspiegabilmente convinti che il mio uomo ideale sia lo spacciatore-delinquente-ipertatuato-rozzo-sporco-motociclista-“ma guarda picchia i bambini, è proprio il tuo tipo” kind of guy. E inclusa quella volta in cui mi hanno presentato un signore di 67 anni con i capelli lunghi, lisci e candidi in stile Gandalf, “perché è un uomo maturo come piace a te”, non credo abbiano mai centrato i miei gusti.

Innamorarmi dell’idea che mi ero fatta di qualcuno è stato il mio sport preferito per anni. Meno li conosci e più puoi fantasticare, meno li frequenti e più li ami, e seguitemi su questo blog per altre ricette. Meno personalità hanno e più facile sarà innestare su quel corpo inerme il modello di partner perfetto, creato in anni di commedie romantiche, libri di De Carlo e canzoni dei Beatles (ok, boomer).

Tra i miei (vani) tentativi di abbandonare l’adolescenza in favore dell’età adulta – sì lo so, la storia di Bin Laden non aiuta, ma è stata DAVVERO una settimana di merda – ho deciso di cercare di mettere in pausa il mio film mentale ed attenermi ad una cosa terribilmente spaventosa e disarmante: la realtà. Potrebbe non essere facile accettare che il nostro uomo ideale non è bello e dannato come Johnny Depp ma più pacato e rassicurante come l’ingener Filini.

A me sono sempre piaciuti i bravi ragazzi. La cosa stupisce un po’ tutti, forse per il mio aspetto rock’n’roll, il caschetto, i tatuaggi e gli anni di formazione dietro ai banconi dei club di mezza Bologna, ma credo di aver sempre – come ogni bambina – cercato di riprodurre il grande amore e l’ammirazione che provavo per mio padre. Poi un giorno, per caso, mi è arrivato il solito ceffone sordo che mi dà la vita quando vuole per forza rompere la mia bolla e farmi cadere di culo sul cemento della realtà, e ho scoperto che mio padre è uno stronzo egoista e menefreghista. E potrei continuare con la lista di complimenti per altre dieci pagine di wordpress.

Essendo io una persona estremamente equilibrata e serena, la cosa ha soltanto mandato in frantumi tutto quello che avevo costruito in una trentina d’anni di vita. Scoprire che l’idea che mi ero fatta di mio padre era soltanto un’illusione infantile mi ha fatto mettere in discussione un po’ tutto quello in cui credevo, come se improvvisamente non fossi più in grado di distinguere la realtà dalle mie ingenue fantasie, come se avessi capito che la vita intorno a me era un insieme di cartonati hollywoodiani in cui girare la fiction scadente della mia esistenza felice, fatta di fiorellini, farfalline e delusioni mortali. Ho (banalmente) smesso di credere nell’amore e nella capacità delle persone di ricambiare il mio affetto, ho chiuso con il lasciarsi andare, il far entrare qualcuno nel proprio spazio, accordandogli la fiducia che ci vuole per vivere.

Per anni ho scelto di frequentare soltanto uomini fidanzati o sposati, accompagnandomi a persone già stronze per definizione nel tentativo di prevenire la delusione. Potresti mai sentirti tradita da uno che tradisce sua moglie con te? Potrebbe mai rompersi qualcosa dentro di te se sei al sicuro dentro una matrioska di infedeltà ed egoismo? Non ne vado fiera, sia chiaro. Ma ognuno si difende dalla vita come può.

Nel mio viaggio verso il fondo del barile emotivo, ho mantenuto solo una variabile degli anni precedenti: l’obiettivo. Sapevo che non avrei più trovato mio padre nei bravi ragazzi che mi hanno amata e rispettata per metà della mia vita adulta, così l’ho cercato nei narcisisti menefreghisti che più si avvicinavano alla mia recente visione di lui.

Alla fine credo pure di averlo trovato. Non nell’uomo perfetto, eroe senza macchia che idolatravo nella mia bolla adolescenziale, e nemmeno nello stronzo, egoista e manipolatore che ho pensato di meritare nella fase nichilista. Ho trovato mio padre nelle persone che sbagliano, quelle tendenzialmente di buon cuore ma poco coraggiose, quelle che non hanno gli strumenti per capirsi e cambiare le proprie vite, quelli che hanno fatto cazzate e tentato di riparare con pezze più evidenti dello strappo. Ho trovato mio padre in tutte le volte in cui non ho saputo cosa fare della mia vita, in quei momenti in cui senza convinzione mi sono buttata nelle cose al grido “cazzomene“, spesso anche nei rientri a casa poco stilosi e affatto sobri.

Ho trovato mio padre e ho capito che non è il mio tipo: ho perso il “modello” su cui fantasticare, ma ho trovato la realtà. E ho scoperto che conoscere qualcuno senza pregiudizi è decisamente più sorprendente di proiettare i miei desideri, ci si può scoprire innamorati di qualcuno che ci fa davvero stare bene, a volte anche contro la nostra volontà. Quindi non ce l’ho, un “tipo”: ho un cane con la testa deforme e un sacco di voglia di perdonare.

Qualcuno da stanare

Un tempo la domanda sul “fidanzato” era prerogativa della nonna al pranzo di Natale, che poi ti metteva in imbarazzo giusto quei dieci minuti davanti ai passatelli in brodo e ad un convegno di parenti divorziati male, ma del resto aveva ricamato le tue iniziali su un corredo quando avevi 4 mesi, quindi qualche diritto di sapere a che punto stava la tua vita sentimentale -la nonna- ce l’aveva pure. Oggi la disanima del nucleo famigliare degli altri sembra essere l’obiettivo comune di tutte le donne dai 40 in su, generalmente incastrate in un una famiglia con figli, marito bolso mononeurale e amante in ufficio che fuori dalla stanza delle fotocopie nessuna pietà. Prima ti guardano con gli occhioni pieni di ammirazione ed entusiasmo mentre ti chiedono con finta discrezione “e tuo marito cosa fa?”, poi quando scoprono che sei single a 40 anni parte la consueta catena di non richiesto salvataggio: prima lo sguardo contrito di compassionevole dispiacere, poi il brainstorming in tua presenza da cui carpisci solo alcune frasi come “amore, presentiamole quel tuo amico tatuatore visto che lei ha i tatuaggi!”, oppure “caro, ma dalle il numero di quel signore che fa il giardiniere che lei ha il giardino”, o ancora “tesoro secondo me starebbe benissimo con tuo cugino che va a pesca perché anche a lei piacciono gli animali”. La consolidata catena di eventi si chiude generalmente con una patetica stretta delle mani in segno di pseudo-sorellanza ed il più classico: “Vedrai che prima o poi troverai QUALCUNO anche tu”.

Per TROVARE qualcuno – sia chiaro – lo DEVI CERCARE. E quindi seguono gli accertamenti sulla vita che conduci. Sarai abbastanza concentrata sulla caccia? Sarai attenta ai segnali? Non sarai mica una di quelle con troppe pretese che non le va mai bene nessuno? Perché non ti fai tinder? E qui scatta il monito: guarda che se poi ti abitui a stare da sola finisce che ci rimani per sempre.

“Il fatto che tu sia single è inspiegabile” mi ha detto il barista porgendomi la birra (avevo una maglietta scollata, ok, ma comunque lo ha detto davvero). E non volendo certo fare la femminista cagacazzi di cui al post precedente me ne sono andata a casa con un trolley di punti ego. Poi ci ho pensato su – perché non sarò femminista ma cagacazzi senza dubbio – e mi sono chiesta: ma in che senso? Cioè è inspiegabile che gli uomini non ci provino con me perché sono carina? È inspiegabile che nessuno abbia ancora fatto la bazza del secolo portando a casa il premio della tombola? (Je suis i prosciutti della Festa de l’Unità). O forse è inspiegabile per più o meno tutti il fatto che io possa vivere una vita degna in totale solitudine, riuscendo addirittura a cambiare lampadine e fare il pieno di metano? Dove sta il mio potere decisionale nel fatto che “inspiegabilmente” non sono fidanzata?

Nel compendio della mia vita adulta sono stata molto più tempo fidanzata che single. E sono stata molto felice ed estremamente triste in entrambe le ‘condizioni’. Se dovessi fare un elenco delle cose che mi hanno dato più gioia e soddisfazione, nessuna di queste sarebbe legata ad una persona esterna da me. E nessun picco di dolore, insoddisfazione o amarezza sarebbe il risultato di qualcosa che ha vissuto qualcuno che non sono io. Del resto si chiama COMPAGNO, ed è una persona che abbiamo ACCANTO, e non al nostro posto, per un periodo più o meno lungo di questa esistenza. Certo, ho attraversato anch’io qualche anno buio, in cui mi ero lasciata convincere dall’insistenza di mia madre e di tutte le donne intorno che l’obiettivo fosse davvero quello di stanare l’esemplare giusto con cui accoppiarsi. Ed è stata quella l’epoca in cui ho dato più soddisfazioni ai followers di questo blog, costringendomi ad essere innamorata di gente inadeguata, indisponibile, incomprensibile, semplicemente incontrata sulla mia strada in un momento in cui pensavo che l’obiettivo fosse TROVARE QUALCUNO. E di “qualcuno”, care amiche, è pieno il mondo. Ma io non ho nessuna voglia di uscire con una persona con cui mi accoppia un algoritmo, e nemmeno con gli amici dei vostri mariti con cui ho in comune il segno zodiacale o la passione per Star Wars.

Essere single non è una colpa, né un motivo di vergogna, non è straordinario e a volte nemmeno inspiegabile, perché lo scopo della vita non è stare con un uomo, ma vivere la propria esistenza nel modo più degno e soddisfacente per sé. E – guess what? – io sono abbastanza soddisfatta del modo in cui cambio lampadine e faccio metano, all by myself. Per quanto “incomprensibile” questo possa risultare alle over 40 maritate o al barista con un debole per le scollature.

Una di meno

Gli estremismi, alla lunga, macchiano di ridicolo tutta la nobiltà di un argomento. Ci sono stati diversi momenti della mia vita (e credo tantissimi in quella di un uomo) nei quali avrei preferito inghiottire una manciata di chiodi piuttosto che ascoltare l’ennesimo sproloquio pseudo-femminista incentrato su Frida Kahlo, Alda Merini, il patriarcato, la fluidità di genere, i consigli di freeda. Ammetto candidamente di essere La donna cresciuta dai buzzurri, ma a me Frida Kahlo sembra una grandissima cagacazzi che ha trascorso tutta la sua (misera) esistenza ad elemosinare l’amore di un uomo che l’ha tradita persino con sua sorella. La povera Alda Merini, invece, ha passato la sua (misera) vita a fare dentro e fuori dagli ospedali psichiatrici che manco io al Mutenye, per poi sposarsi con un uomo assente e violento che la picchiava ogni volta che rientrava a casa urbiaco. E raga, davvero la coppetta mestruale è per voi il sacro graal del femminismo moderno?

Per non parlare dell’iconografia volgare e stucchevole che avvolge l’argomento: vagine di ogni forma e colore sventolate come bandiere dell’emancipazione, cordini di assorbenti che sbucano nelle fotografie, abiti bianchi macchiati di sangue mestruale. Non capisco il senso di questa battaglia cieca e superficiale, mi sfugge l’utilità di mettere in mostra un evento sì biologico, ma intimo e ben poco piacevole. Si vuole mostrare la naturalità del ciclo femminile? Allora perché non postare su Instagram le proprie feci, perché non sbandierare con orgoglio la sboccata ai piedi del water dopo una notte in discoteca al Mutenye a trangugiare shot di vodka Augustiner?

Mettete mutande sporche nei vostri cannoni, ragazze, che questa è la rivoluzione.

Ma la battaglia non è solo iconografica, oltre le gambe c’è di più, dicevano due che di femminismo se ne intendevano. La guerra passa attraverso tutta una serie di etichette in cui inscatolare le preferenze sessuali, l’emotività, l’empatia, la difesa dei diritti. Perché il genere deve essere fluido, ma la lotta è divisa in barattoli: transfemministe, postcolonialiste, femministe alla francese, terf, womaniste. Tutte con obiettivi diversi, e spesso anche in contrasto con quelli delle altre, non sia mai che ci mettiamo vicine alla manifestazione. Poi gli asterischi, la schwa, il linguaggio patriarcale, articoli che sembrano geroglifici per non turbare la sensibilità di tutti quelli che non si sentono di rientrare nel maschile/femminile/neutro, ma inneggiano al diritto di svegliarsi gamba del tavolo e avere una definizione confermata dall’Accademia della Crusca anche per quel sentimento lì.

Io nella vita sono stata fortunata e anche sul lavoro ho conosciuto persone eccezionali. Cioè ho conosciuto anche grandissim* stronz*, ma gli amici bellissimi erano sempre stati molti di più e hanno fatto scudo intorno a me contro ogni lancio di escrementi. In tutte le redazioni in cui ho lavorato negli ultimi vent’anni c’è SEMPRE stato qualcuno pronto a giurare che il posto me lo ero guadagnato lavorando sotto la scrivania e non sopra. E guess what? A mettere in giro voci maligne sui miei (mancati) meriti sono sempre state donne, proprio quelle in prima fila nella lotta per le quote rosa, il matriarcato, l’inclusività. Perché la sorellanza va bene finché sei meno brava di me, altrimenti troia.

Che le donne non siano in grado di fare squadra è una mezza verità, o meglio non è una questione di genere, ma di insicurezza: chi ha poca autostima, non crede nelle proprie capacità, è insicuro della sua posizione, difficilmente riuscirà a gioire per i successi degli altri, ma li giudicherà con invidia e cattiveria. E questo accade in tutti i mondi, maschili, femminili o neutri. Certo, va detto che dal punto di vista lavorativo sono spesso le donne a vivere in una posizione di svantaggio economico e contrattuale, che le porta ad essere più insicure e competitive. Ma non è questo che conta davvero, giusto? Non perdiamo di vista l’obiettivo: il problema qui è il linguaggio non binario, la desinenza fluida, i diritti delle donne, ma solo quelle che dite voi, le altre no; e gli uomini poi, tutti maschilisti a gongolare nel loro morbido patriarcato e insultarci con l’italiano sessista.

Ieri la mia collega ha detto una grande verità: il matriarcato fa schifo così come il patriarcato. E poco importa se lo ha scritto nella chat delle donne della redazione, che si intitola – non a caso – “Una stronza lo sa”.

Checrudezza.com

Si stava meglio quando si stava meglio. E si scriveva di stronzate, casi umani da interpretare, paturnie varie ed eventuali da risolvere con una damigiana di fiori di Bach. Poi le uscite sono diventate videochiamate, le serate pomeriggi, la priorità sopravvivere. Il mio blog si è macchiato di tutta la frustrazione intorno, ho cominciato a parlare (da sola) di quarantena e paura, di soddisfazioni e solitudine, emulando a parole l’altalena emotiva che avevo dentro. Oggi rallegratevi perché si parla di morte.

Uno dei primi incarichi che mi ha assegnato la mia nuova capa è stato scrivere un articolo su tutti i lutti celebri del 2020. Figo il fantamorto, ho pensato. Presa dall’entusiasmo ho subito aperto una bozza e cominciato un attacco su quanto funesto sia stato questo anno incredibile.
L’ispirazione si è interrotta a più riprese dalla polemiche sulle piste da sci chiuse a causa del coronavirus, da Zaia che si scaglia contro il governo, i negozianti che insorgono, i ristoratori che si lamentano, gli sciatori che inveiscono. Ho aperto e chiuso dieci volte la mia bozza salvata con la parola chiave “funesto”. Ho scritto un paragrafo su Maradona e l’entusiasmo ha cominciato a vacillare.
Ho dato un’occhiata al notiziario per distrarmi, c’era il bollettino della Protezione Civile: 993 morti. Tutti intorno a me hanno commentato “il giorno del record”, come se il primato potesse rendere ancora più impersonale quel numero, vite spente di persone, padri, madri, figli, zii, amici, amori di qualcuno che in quel momento sicuramente stava piangendo, mentre io cercavo foto di montagne innevate che quest’anno no, non si va a sciare. Il pezzo funesto non mi andava più di aprirlo, perché i famosi morti quest’anno saranno pure tanti, ma non sono 993 sconosciuti di cui non so il nome, finiti in un bollettino che tutti i giorni, puntuale, si infila nel notiziario tra il recovery fund e un presepe sommerso.
Un giorno di luglio in quel bollettino c’era una persona che conoscevo, o meglio che ammiravo attraverso gli occhi verdi di sua figlia, che da vent’anni mi guardano in faccia quando ridiamo e piangiamo (sempre e solo io) davanti a una birra (o dieci). Chissà cosa penserà lei del mio articolo sui morti famosi. Chissà se lei ha trovato la forza di dispiacersi anche per Ennio Morricone o Ezio Bosso, dopo aver lasciato andare l’essere umano che più amava in questo mondo, ed essere stata costretta a leggere in quel numero insignificante ed effimero la fine di una storia di vita.

Sono cresciuta in una delle quattro case coloniche di un minuscolo borgo nei pressi di Grizzana Morandi. Mio nonno era un contadino di poche parole che mangiava caramelle alla menta mentre zappava con i pantaloni di velluto a coste, mio zio allevava quaglie e fagiani, che poi lui, mio padre e i miei cugini cacciavano nei campi. Li facevano alzare dal cane e gli sparavano col fucile quando erano a mezz’aria, nel momento in cui assaporavano la libertà dopo una (breve) vita in gabbia. I setter vivevano anche loro in una gabbia tutti insieme, d’estate e d’inverno, quando non erano legati alla catena nell’aia davanti a casa, a guardare un mondo intorno che non potevano raggiungere.
Io ero la più piccola e per questo molto sola, con una testa immaginifica inspiegabilmente libera dai pregiudizi: per me la vita è sempre stata vita, non importa in quale forma. Gli animali erano i miei unici amici. Tutti. Avevo dato un nome alle galline che mi correvano incontro la mattina, avevo un’oca di nome QuiQui che mi seguiva ovunque, accarezzavo i coniglietti, vivevo in simbiosi con Aquila Nera, un piccione caduto dal nido che era cresciuto con me e si appollaiava sempre sulla mia spalla. Adoravo i topolini, davo il cocomero ai maiali e la sera raccoglievo rospi giganteschi che tenevo in braccio e portavo in cameretta terrorizzando mia madre e le mie zie.
C’è stato un momento, una specie di epifania, in cui mi sono chiesta che senso avesse far nascere animali, crescerli e accudirli, persino salvarli qualche volta, per poi un giorno – arbitrariamente – ucciderli senza pensarci troppo, ed eventualmente mangiarli. E quella crudezza, quella superiorità acquisita che ci permette di decidere quando e come interrompere una vita, mi sono resa conto molto presto che non mi apparteneva.

Domenica mi sono svegliata e ho cominciato ad ascoltare Cosmic Dancer dei T-Rex in loop, fino a quando mi sono intristita pensando a quanti altri capolavori avrebbe potuto scrivere Marc Bolan se non fosse morto in un incidente stradale a 29 anni. Lui non c’è più: la sua esistenza terrena si è spenta 43 anni fa. A noi è rimasto questo: la sua voce dolce e perfetta che ripete “dancing” con l’accento inglese, la chitarra che culla quel mantra e si increspa quando entra la batteria.

Stamattina ho trovato finalmente un momento per leggere (mentre salivo cinque piani di scale a piedi, che se vogliamo è una forma di morte) e ho estratto dalla borsa una copia de L’Espresso, che ogni anno dedica il numero dicembre al protagonista dei dodici mesi appena trascorsi. Il personaggio del 2020 – ma dai – è la morte. Ho girato la copertina inquietante con un fotogramma della partita a scacchi de Il settimo sigillo di Bergman, su cui hanno photoshoppato il primo bambino nato nel gennaio scorso. Mi sono fermata sull’articolo di Massimo Cacciari: “Aver cura di morire significa, allora, ‘lavorare’ la propria esistenza nell’attesa che la morte possa rappresentare per noi un compimento”. Per poter affrontare la morte, secondo il filosofo, bisogna non solo vivere la vita tanto intensamente da farsi trovare sempre pronti, ma soprattutto avere due cose: “un Fine e degli Eredi”.

Non avendo figli a cui trasmettere le mie innate qualità (chessò, la mia capacità di reggere l’alcool o l’utilissima maestria nell’afferrare gli oggetti con i piedi) mi sono partiti una serie di pensieri in stile Battiato su cosa resterà del mio transito terrestre. Magari sopravviverà questo blog come monito alle generazioni future, che sulle mie stronzate fonderanno un culto religioso. Forse resteranno i sorrisi che amo fare agli sconosciuti per strada, che prima o poi chiameranno un Tso e quindi lascerò in eredità le mie memorie da una clinica psichiatrica.

Non ho grandi certezze sugli Eredi, il Fine è certamente la felicità. Ed è un lavoro di costanza, fatto di piccoli momenti unici tenuti insieme proprio dalla consapevolezza che non siamo eterni. Forse il segreto per non temere la morte è semplicemente vivere. Guardarsi intorno, raccogliere impressioni, ma anche bere birre, ridere, ascoltare canzoni, diventare le persone che un giorno saranno ricordate da qualcuno che conosce l’esistenza dietro quel numero. Non ci si può pentire di aver dato il massimo, fa soffrire un po’ meno l’idea di separarsi da qualcuno che non avremmo potuto amare di più. Dare tutto per essere pronti al niente.

E ora andate e spargete il Verbo del fancazzismo.

Nonostante tutto non mi pento di niente

Il team maiunagioia si aggiorna e diventa team unasolagioia. Nel bel mezzo di una pandemia mondiale, tra un bonifico dell’Inps da 4 euro e 70 ed un semaforo di ordinanze che ha reso la mia vita sentimentale più noiosa di un libro di Garcia Marquez, ho trovato lavoro, grazie soprattutto al mio merito culo and a little big help from my friends.

Torno a fare la giornalista, o meglio: c’è di nuovo qualcuno che mi paga per fare quello che so fare, per essere quello che mi sento di essere. Almeno una delle mie personalità avrà uno stipendio.

Non ho mai pensato che il mestiere facesse la persona, non ho mai ritenuto che la tipologia di impiego fosse una discriminante nelle relazioni, o che aggiungesse/togliesse valore alla qualità di un essere umano. Ho conosciuto imprenditori ignoranti e superficiali, e ristoratori con una cultura smisurata ed un’intelligenza raffinata.

Io stessa sono stata barista, giornalista, cameriera: sono stata dietro le quinte dei reality Rai e nelle cucine dei ristoranti, ho servito per anni cocktail al Covo e intervistato Phil Collins e John Malkovich, sono stata a feste fighette a pochi metri da Lou Reed e a parlare di socialismo fino all’alba con il mio fruttivendolo. Sono stata per dodici anni fidanzata con un giornalaio, a cui devo buona parte di quella cultura musicale che mi ha portata ad essere oggi quello che sono. In una “vita” o nell’altra, io non mi sono mai giudicata, in molti lo hanno fatto per me.

C’è sempre una sorta di spietatezza nel valutare gli altri, che nasce dal non tenere mai conto di quello che stanno attraversando. Si chiama mancanza di empatia. Negli ultimi anni la mia esistenza è stata ribaltata da una lunga serie di eventi catastrofici, che avrebbero mandato in clinica anche Osho Rajneesh. Io ho resistito a tutto e sono sopravvissuta. Le alternative erano finire in una vasca di Xanax oppure aggrapparsi al mio non-pregiudizio: io sono sempre io, qualunque cosa faccia per pagarmi l’affitto. Questa consapevolezza ha fatto da scudo a tutti i “giornalista fallita”, ai “talento sprecato”, agli sguardi pietosi degli amici, alla delusione sul volto dei miei genitori. Per me il mio talento non era sprecato, ma convogliato su questo blog dove ho la libertà di scrivere quello che mi pare, che ho fatto completamente da sola e che mi regala costantemente soddisfazioni immense e personalissime. Non mi sono mai sentita una fallita, perché i meriti ottenuti nella mia precedente carriera sono rimasti indelebili nel mio cuore, sulle riviste per cui ho scritto, e anche nel curriculum vitae che oggi mi ha riportata su quei binari.

Sia chiaro che sono molto felice. Non nascondo che nella settimana trascorsa tra il colloquio e la firma del contratto avevo il settimo cielo dentro e facevo fatica a tenerlo tappato. Mentirei se dicessi che non ho ballato al telefono con la zia Ivana o che mio padre non aveva gli occhi lucidi quando gliel’ho detto. E ammetto anche di aver provato un lieve e passeggero sentimento di rivalsa nei confronti di tutti quelli che ritenevano che le mie ambizioni giornalistiche dovessero spegnersi per sempre, e che forse godevano dentro le viscere di questo pensiero.

Nonostante tutto non mi pento di niente. Non mi vergogno più dagli anni Novanta, di certo non di quello che ho fatto o di quello che sono. Guardo con dolcezza a quello che sono stata negli ultimi anni e con soddisfazione a quello che sono ora. Il mestiere non fa la persona, ma io fin da piccola ho sempre voluto fare la giornalista o la camionista e, come dico spesso, sono soddisfatta di essere riuscita a realizzare entrambi i miei desideri.

P.S.: Sulla gente ganza che fa lavori umili qualche anno fa scrissi questo articolo su Rolling Stone, di cui vado ancora abbastanza fiera. Non giudicate il cameriere: potrebbe essere il vostro musicista o scrittore preferito.

Lobotomia frontale

Il modo in cui Andrea conosce le persone è unico e invidiabile. Vorrei che tutti gli uomini (uno solo) per cui mi prendo una leggera sbandata (l’Amore eterno) fossero un po’ come lui. Magari non come lui quando mi pianta sola in un vicolo buio del centro perché ha trovato una sbarba con cui andare a bere una sciocchezza, o come lui quando si dimentica che poche ora prima gli ho confidato una cosa per me di vitale importanza; diciamo più come lui quando incontra una che lo gasa per i più disparati motivi, e le chiede di uscire con una naturalezza che io non ho nemmeno con la cassiera della coop che sa cosa mangio fin dai tempi del liceo.

Andrea si relaziona alle persone con l’ingenuità di un bambino: si interessa alle storie degli altri, ai loro gusti, ai libri che leggono; fa attenzione a come usano il linguaggio (poi sospira «aaahhh la lingua italiana!»), canta canzoni in coro, guarda foto, conosce, ascolta, percepisce segnali e reazioni. Io lo so perché a volte sono presente. Sono l’amica vecchia che si porta dietro (solo perché io ho lo scooter, due caschi e abitiamo vicini), e credo che la mia presenza in realtà lo aiuti con le ventenni, perché pensano che e io sia la madre o l’amica milf, cosa che le fa stare più tranquille. Andrea comunque non è mai viscido né marpione. Certo: vuole inzippare pure lui come tutti gli altri, ma non lo dà mai a vedere. A fine serata – se non mi abbandona nel vicolo – torniamo allo scooter e lui ha sempre un contatto, un intorto o, come minimo, una nuova amicizia.
Un tempo ero così anch’io: ingenua, spontanea, libera da condizionamenti e da giudizi. A volte lo sono ancora, molto raramente. Guardo Andrea e penso che lui ha 35 anni, io ne ho 41 e mi sento vecchia; lui ha un sacco di cose da dire, io mi sento vuota; lui è bello, io ultimamente mi sento un bagaglio a mano dell’easyjet che devi pure pagare per imbarcarlo.

Ieri ho letto per caso la frase “Chi cerca col sorriso ha già trovato”. Andrea cerca col sorriso, io cerco con la tigna. Un po’ perché a 40 anni ti inculcano l’idea che se esci a bere una sciocchezza con uno non è solo per conoscerlo ed eventualmente tornare a casa da sola con una nuova amicizia; se esci con qualcuno lo devi fare necessariamente per SISTEMARTI: sposarti con l’abito bianco, fare tre o quattro figli, andare a vivere in un appartamento con i mobili grigi e i gerani sul balcone, cucinare salsiccia e patate e fare le cene a quattro con un’altra coppia di geppi. Così io, che odio il bianco e vivo nella casa dei puffi con i mobili gialli, amo le piante verdi e sono vegetariana, faccio un filino fatica a trovare la voglia di aprire il mio cuoricino di latta e mostrare quei quattro sentimenti avvizziti che sono sopravvissuti ad anni di siccità.
Se uno mi sorride mentre gli porgo le tagliatelle almeno quattro colleghi si precipitano a farmi notare che ne vuole, se a cena mi metto a parlare con un commensale di sesso maschile tutti si aspettano che finiremo al Trappolone insieme, e quando uno mi offre una birra al pub sicuramente mi vuole dare due colpi (ok, ammetto che in quest’ultimo caso potrebbe essere vero).

Le relazioni umane sono condizionate dall’idea che l’amore – o per lo meno inzippare – sia il fine ultimo delle nostre esistenze. Il retaggio che ogni interazione sia l’opportunità per trovare l’anima gemella o il trombamico ha sabotato la spontaneità con cui un tempo facevo amicizia anche con i muri, e magari in quell’epoca conoscevo le persone prima di perdere la testa per loro. Oggi conoscersi è sopravvalutato, parlare è uno spreco di tempo. Ci si prende una sbandata per un profilo Instagram su cui si proietta la propria idea di compagno, si scopre tutto da facebook, si legge la bio, si sa già che musica ascolta da spotify. Non c’è bisogno di uscire insieme, siamo già insieme da qualche parte nel world wide web. Io di questo meccanismo ne ho piene le palle, eppure ne sono vittima e carnefice. Sono succube di tutti i cazzari e tecno fenomeni di cui ho già ampiamente descritto le gesta (i leoni da tastiera, i ghost, gli zombie), ma sono anche diventata sterile nelle relazioni umane fuori da un telefonino. Soprattutto con quelli (uno solo) che mi piacciono.
Ammetto di essere il tipo di donna spigliata ed esuberante che quando parla con un figo diventa un essere mono neuronale incapace di esprimere frasi di senso compiuto. Resto lì con lo sguardo vitreo perso nel vuoto come Sue Ellen che guarda l’orizzonte in Dallas, mentre lui magari pensa che sarei pure carina, peccato solo per la lobotomia frontale che ho subito qualche minuto fa.
L’altra sera, per invertire la tendenza, ho portato io Andrea con me ad incontrare uno che mi piace, per avere una sua opinione sul mio atteggiamento estremamente lampante, sui miei sorrisi evidenti, le mie mosse chiaramente ammiccanti, il mio atteggiamento trasparente nei confronti di questo malcapitato essere umano. Ha detto Andrea che io non faccio assolutamente NIENTE. L’apertura di uno spiraglio sul mio mondo interiore – che io vivo come uno sforzo soprannaturale – agli altri è totalmente invisibile. Questo sbilanciamento nella percezione della mia volontà significa che ogni volta in cui mi lamento di incontrare solo casi umani, perdo di vista il fatto che il caso umano sono io. Sono io quella che non sa relazionarsi, sono io che non mi apro, sono io il gorilla silverback. Sono io che non ho il coraggio di essere diretta e di chiedere ad un uomo che mi piace di andarci a bere un caffè, e parlare di libri, dei suoi gusti, cantare canzoni in coro e ascoltarlo. Con la consapevolezza che potrei tornare a casa da sola con o senza il suo numero, ma che mi sarei comunque divertita a far entrare un po’ di luce in quella caverna che ho al posto del cuore. Oppure suggerisce sarcasticamente Andrea che potrei continuare a fare quello che ho fatto fino ad ora: NIENTE.

Rage against the bulli

Il giorno in cui è uscito il Vanity con Vanessa Incontrada nuda in copertina un mio collega mi ha dato della cicciona. Così, per gradire. Ha detto proprio «l’insalata è per sta cicciona», con lo stesso tono di voce con cui qualche mese fa raccontava commosso di tutte le angherie subite dai bulli prima di sottoporsi all’operazione per ridurre lo stomaco (e con la medesima enfasi con cui pochi giorni prima mi faceva sapere che sono il suo sogno erotico, e che a volte si sveglia talmente eccitato da non sapere come giustificare tanta veemenza con la moglie).
L’ho rimesso al suo (piccolissimo) posto con un’eleganza ed una compostezza che non sono assolutamete da me, poi sono corsa al piano di sotto a piangere sulla mia insalata (che è decisamente più da me), perché avrò anche quarant’anni e una buccia spessa tre centimetri, ma sono fatta di carne anch’io, e pure parecchia.

Uscita dal lavoro mi sono comprata un bel mazzo di fiori che mi sentivo di meritare, ho piagnucolato a tutti i semafori (oh, mai che in queste occasioni ci sia un motociclista che si volti e dica semplicemente «Ciao, vuoi sposarmi?»), e infine ho sfogato sui social tutta la mia rage against the bulli con un post acchiappalike che mi sentivo di meritare.
Quando pubblico qualcosa in difesa delle donne si pigia in automatico il pulsante del SalvaFedeMingarelli, e le mie amiche avviano la catena consolatoria del chi ti ha maltrattata, chi è la merda, sei bellissima, sei intelligente, hai quegli occhioni e anche a me è capitato e mi sono sentita così. Il dato sconvolgente è infatti che tutte le donne che conosco – che siano sotto o sovrappeso, bionde, more, alte, basse, ricce o rasate a zero – hanno subito qualche infondato attacco sull’aspetto esteriore, che ha minato indelebilmente la loro autostima. E il dettaglio ancora più assurdo è che si tratta di donne oggettivamente bellissime, che tutti i miei amici si metterebbero in fila per corteggiare, che hanno ruoli di responsabilità in mestieri importanti, caratteri tosti, studi alle spalle, sensibilità e dolcezza da vendere, intelligenza sopraffina e cultura smisurata. Eppure tutte si sentono sotto pressione perché hanno le rughe, la cellulite, qualche chilo di troppo o qualcuno di meno, i peli, pochi capelli, troppi capelli, il culone, le tettine e potremmo davvero stare qui fino all’alba ad elencare parti del corpo a caso con cui sicuramente qualcuna ha un pessimo rapporto. Tra i tanti messaggi di solidarietà mi è inaspettatamente apparsa Emilia, con cui ho un rapporto di stima professionale smisurato e che ammiro anche molto per la sua bellezza/fisicità/stile. Mi ha scritto cose di una dolcezza quasi materna e poi, raccontandomi la sua esperienza, ha detto una frase che mi è rimasta impressa: «Non ho mai avuto dubbi sulla mia intelligenza». Già, nemmeno io. A pensarci bene, il mio soprannome al lavoro è sempre stato “la giornalista fallita”, eppure la cosa non mi ha mai fatta piangere sull’insalata.

Quotidianamente riceviamo giudizi e commenti sulla nostra interiorità (“scema”, “rincoglionita”, “sfigata”, “cretina”), sulle nostre scelte di vita (“vegetariana del cazzo”, “gattara”, “zitella”), ma non ci scalfiscono mai quanto gli insulti sull’aspetto esteriore. Eppure la merda incartata in un bel pacchetto rimane sempre merda. E l’intelligenza, sulla quale né io né Emilia nutriamo alcun dubbio, sbriluccica come pietre preziose anche se ricoperta di difetti fisici o presunti tali.
Ho fatto un po’ di ricerche sull’argomento bulli e body shaming, capitando per caso sul racconto di una psicologa infantile, che ha deciso con il marito di evitare di parlare dell’aspetto fisico delle persone davanti ai bambini, per educarli a non dare importanza alla superficie. In pratica ci si riferisce agli amichetti giudicandoli in termini di intelligenza, dolcezza, bravura nei calcoli, creatività nei giochi. Così nei giorni successivi mi sono concentrata per contare quante volte al giorno esprimo giudizi (positivi o negativi) sull’aspetto esclusivamente esteriore delle persone che incrocio, anche solo limitandomi a pensarli. Centinaia.

Tutti noi, quando rivediamo qualcuno dopo mesi o anni, tendiamo a commentare quanto sia ingrassato o dimagrito, invecchiato bene oppure male; non credo di aver mai ricevuto una telefonata tipo «Oh ma sai che ho appena beccato tizio e l’ho trovato estremamente lucido ed equilibrato?».
Viviamo un’epoca in cui la scatola vale di gran lunga più del contenuto. Tutti ci sentiamo di non essere abbastanza belli (per chi?), di non rientrare negli standard imposti (da chi?), di dover aspirare ad una perfezione estetica impossibile e spesso inadatta a noi. L’essere speciali e brillanti dentro sembra non essere sufficiente a superare il dolore di avere un brutto fiocco intorno, dove l’aggettivo “brutto” è stato appiccicato da nessun altro se non da noi stessi. Ci imponiamo di essere diversi e poi passiamo la vita a soffrire per quello che siamo, senza renderci conto che tutti hanno le stesse paranoie e debolezze, anche quelli che vorremmo essere.

Voglio che la bellezza sia per me la somma di tutti i sacrifici che ho fatto per lucidare le mie gemme, che nei miei occhioni si intravedano dolcezza e fragilità, che nella mia morbidità si percepiscano tutti i dolori che ho affrontato con la mia sola forza, che il non sentirmi mai abbastanza colta sia la chiave per scoprire quanto lo sono. I bulli siamo noi, siamo i primi e più accaniti giudici di quel contenitore che serve solo a portare in giro le impressioni che abbiamo dentro. Siamo gli unici a poter interrompere la sofferenza del giudizio, annullandone il potere. With a little help from my (bellissimi) friends, naturalmente.

Avevo 11 anni

Questo post non fa ridere. Non ha il tono sarcastico e irriverente di tutte le storie che avete letto finora sul mio blog. Qualche giorno fa un’amica mi ha detto che in questo mondo soffriamo per alleviare la sofferenza degli altri, e mentre pronunciava queste parole sagge, io pensavo alla quantità di lettere di ringraziamento che ho ricevuto in un anno e mezzo per tutte le cretinate leggere che ho scritto. Perciò ho scelto di utilizzare il mio diario online per il primo passo con cui cerco di liberare il mio cuore dai non-detti: un segreto che ha ramificato dentro di me per trent’anni, togliendomi spazio per respirare. E se non allevierà la sofferenza di nessun altro, sicuramente farà sentire meno sola la bambina che sono stata.

Nel 1990 ero una giovane promessa del nuoto. Avevo appena partecipato ai Campionati Italiani, riempiendo di orgoglio i miei genitori per essermi classificata tra i primi cinquanta (più probabilmente erano felici perché la società ci aveva pagato due stanze separate in un hotel di Pesaro). L’avere un talento non ti rende un bambino come gli altri. La mia vita (a)sociale era scandita da allenamenti estenuanti: avevo un permesso speciale per uscire prima da scuola e precipitarmi in piscina, un giorno a settimana dovevo andare in palestra, i miei capelli erano costantemente bagnati, gli occhi arrossati e la pelle aveva sempre il profumo asprigno del cloro. Agli allenamenti serali la piscina era tutta per noi, nuotavamo in fila uno dietro l’altro e spesso capitava di sfiorare con una bracciata le punte dei piedi di quello davanti o calciare per sbaglio il compagno successivo. Maschi, femmine, adulti e bambini: lo sport non fa distinzioni. Dopo ogni circuito di esercizi ci radunavamo a bordo vasca per ascoltare le istruzioni dell’allenatore, approfittando per spostare sulla fronte gli occhialini stretti e riposare gli occhi, riprendere fiato, respirare.

Quel giorno mi afferrò per la vita. Ricordo che toccavo a malapena, ma lui mi tirò a sé tenendomi “seduta” sulle sue gambe. Avevo 11 anni. Forse mi dimenai, o forse pensai di farlo, ma il suo braccio peloso si strinse in una morsa intorno alle mie, portandomi ancora più vicina alle sue parti intime. Intorno a me tutti gli altri erano concentrati sulle parole dell’allenatore, che io non riuscivo a sentire. Nelle orecchie e nella gola sentivo solo rimbombare il tamburo del mio cuore esasperato dalla paura, cercavo di decifrare quello che mi stava succedendo, mentre un brivido sordo precipitava nel mio stomaco. Al fischio dell’allenatore la coda ripartì come se nulla fosse successo. La morsa si sciolse ed io mi infilai tra due ragazzine nuotando con tutta la forza che avevo nel corpo per scappare da quel momento, mentre le lacrime si mescolavano al cloro.
Successe altre due volte prima che io capissi che non avevo scampo. Per quasi una settimana riuscii a schivare gli allenamenti fingendomi malata, poi i miei genitori cominciarono ad accusarmi di pigrizia, e nessun pianto disperato riuscì a risparmiarmi quel patibolo. Avevo 11 anni. Ricordo con chiarezza le notti insonni passate a cercare le parole giuste per spiegare a mia madre cosa stava succedendo. Non sapevo dare un nome a quei gesti, a quelle parti del corpo, non potevo descrivere una cosa tanto innaturale e lontana dalla vita di una bambina. Un giorno mi feci coraggio, la chiamai in camera e tra le lacrime cercai di descrivere quello che era accaduto. Mia madre si alzò in piedi davanti a me – aveva il grembiule – si girò di spalle e tornando in cucina disse «Te lo sarai immaginato. Da domani torni a nuoto». Poi chiuse la porta e il discorso.

Qualche giorno dopo strinsi la corda dell’accappattoio rosso, attraversai la vaschetta entrando in una nuvola umida e asprigna, e mi misi seduta a bordo vasca ad aspettare rassegnata il calore viscido di quell’abbraccio subacqueo. Lui non c’era. In fondo allo stanzone, dietro ai trampolini, un gruppetto di adulti discuteva animatamente. “Verrà denunciato” è l’unica sequenza di parole che riesco a ricordare, mentre Irene piangeva con le mani sul viso e i suoi genitori la stringevano forte. Mentre l’allenatore e i dirigenti si allontavano, mi avvicinai a quella ragazzina alta e snella e piena di lentiggini, le sfiorai un braccio e con un filo di voce dissi: «Lo faceva anche a me». Lei si voltò con gli occhi pieni di lacrime, mi abbracciò – ero piccolissima – accarezzandomi la testa e rassicurandomi: «Ora non lo farà più, vedrai, né a noi né a nessun altra, puoi stare tranquilla». Quel giorno una ragazzina poco più che adolescente restituì ad una bambina il ruolo di vittima che non aveva mai pensato di meritare.
Ho sempre sognato di essere come lei: di avere la forza per far sentire la mia voce, la sicurezza per farmi ascoltare, la saggezza per consolare qualcun altro. Ho sempre pensato che quello che mi era successo non fosse importante, di non avere diritto di soffrirne, di non doverne parlare con nessuno. Ma oggi posso finalmente essere come Irene: posso parlare, scrivere, raccontare, possibilmente abbracciare virtualmente qualcuno e consolarlo con qualche parola di conforto.

Oggi posso, ma allora no, allora avevo 11 anni.