Bella (la) presenza

Ventiquattro mesi fa i social sembravano l’unica salvezza da una vita da reclusi fatta di lievito e serie tv, oggi penso di cancellare i miei profili un giorno sì e l’altro pure. Con una mossa da boomer mi lamenterò del fatto che Facebook è pieno di boomer: gente che si sente libera di commentare qualsiasi cosa (nella vita reale buttereste mai una frase misogina in un dialogo fra altre persone?), che pontifica di argomenti che non conosce (nella vita reale vi mettereste mai a discutere la diagnosi del dentista?), e infine i miei preferiti, quelli che non escono di casa dagli anni Settanta ma “Bologna non è più quella di una volta” o “mancano gli eventi culturali”, che se lo faceste nella vita reale vi darei una sprangata di traverso che vi spaccherei il naso e i denti in una botta sola. Altro che eventi culturali.

I social sono diventati la comfort zone dei disadattati, la capanna della proverbiale sindrome, il rifugio di chi è più bravo con i tasti che con la voce, la vetrina di chi non riesce a vedere oltre il proprio negozietto, allestito ad hoc per attirare clienti con la medesima patologia: la paura di vivere. Il tutto aggravato da due anni di pandemia a lockdown alternato, che hanno fornito ai misantropi la prova provata che si può fare: si può sopravvivere tra quattro mura facendo il pane e l’abbonamento a Netflix, si può mantenere un rapporto dialettico con la ‘propria comunità’ sputando sentenze sotto ai loro post, si può persino amoreggiare, purché – fermi tutti – ci si mantenga al riparo dietro allo schermo deformante di un’app per incontri.

Tanto poi cosa succede? Se ti faccio incazzare cosa mi fai? Se sparisco dalla tua bolla mi vieni a cercare nel World Wide Web? Mandi una denunzia al mio indirizzo ip? Chiami la polizia postale degli stronzi? Mi lasci una brutta recensione su dickadvisor.com? Non ci sono conseguenze all’inadeguatezza virtuale, solo un po’ di pena per chi annaspa in una manciata di relazioni sintetiche e si sente soffocare dalla realtà della carne.

Sorrido pensando a come un tempo gli annunci di lavoro contenessero quasi sempre un paio di termini che oggi scatenerebbero crociate femministe e gare di lancio dell’hashtag: “Bella presenza”. Perché raga, chattare è divertente, i vocali (se non superano il minuto) sono pure intriganti, carini gli emoticon, dolcissime le video serenate, ma ve lo ricordate vagamente com’era tenersi per mano? Avete qualche reminiscenza di quanto fosse confortante abbracciarsi, annusarsi, vedere un sorriso trasformare una faccia? Non era splendidamente spaventoso guardarsi negli occhi prima di un bacio? La bella presenza / il bello della presenza.

Non mi vergogno di niente dagli anni Novanta, di certo non ho paura di ammettere che anche io ho dato il mio contributo alla scienza dei casi umani virtual edition. Complice la serie di sfighe che mi hanno costretta a letto per quattro dei cinque mesi di questo 2022, ho interagito decisamente più sui social di quanto la coda di una pandemia e l’essere costretta a letto a casa dei miei mi abbiano permesso di fare live. Poi ad un certo punto sono uscita. Ho zoppicato verso il pub dove nessuno sa cosa sia Internet e quindi da mesi si chiedevano che fine avessi fatto; ho barcollato a qualche concerto, godendomi dal divanetto l’emozione – per me insostituibile – della musica che si crea in un istante preciso; ho messo le mie mani (gelide) sul viso di un uomo prima di baciarlo; ho riabbracciato i miei colleghi, tenuto per mano mia nipote, sentito il profumo dell’erba e dei fiori di campo. Ho goduto dell’essere viva con tutti i sensi a disposizione.

L’altra sera un amico (conosciuto ad un matrimonio quattro anni fa e ovviamente mai più visto dal vivo) mi descriveva le potenzialità del “metaverso”, ennesima definizione di un universo parallelo tridimensionale, in cui gli esseri umani possono interagire attraverso avatar di se stessi. Lui immaginava con entusiasmo di potersi godere una (pseudo) vita da ventenne anche a 80 anni, io visualizzavo un futuro fatto di corpi chiusi in celle frigorifere a “sognare” di esistere, relazionarsi, fare sesso con corpi perfetti scelti dallo shop online, regalarsi fiori sintetici e respirare aria pixelata.

Quanta paura può fare la realtà per decidere di non volerla più vivere? Quanto spaventa l’idea di essere rifiutati in presenza per convincere a rintanarsi sotto il piumone della virtualità?

Il mio corpo non mi fa impazzire: a volte lo odio profondamente, altre volte lo amo con tenerezza materna. Ma è il MIO corpo e mi rappresenta, è la proiezione esteriore di quello che ho dentro, della mia pigrizia e della mia dolcezza, delle contraddizioni, degli sbagli. Il mio corpo porta i tatuaggi delle cose che ho amato in questa vita, mostra i segni dei traumi, la pesantezza dei dolori, una dolcezza che tengo nascosta. Non cambierei le mie cosce da pallavolista con quelle di un angelo di Victoria’s Secret se il prezzo da pagare fosse sopravvivere alla mia carne nel metaverso. Non rinuncerei ai miei difetti per montare una vetrina Instagram di apparenze se non potessi più sentirmi desiderata così come sono in un abbraccio reale.

Non è l’approvazione degli altri a darmi valore, anzi: la volta in cui ho ricevuto un due di picche mi sono sentita ganzissima per il solo fatto di aver avuto il coraggio di provarci, rigorosamente dal vivo. Non sono i like a renderci brillanti, non sono le chat a farci innamorare, non siamo foto dentro ai telefonini: siamo carne, pelle, odore, sapore. Siamo una voce, uno sguardo, un modo di camminare. Meritiamo qualcosa di più di una serie di messaggi senza tono e di immagini senza dimensione, meritiamo almeno di guardarvi negli occhi davanti a una birra al pub, dove la vita è quella vera perché quasi nessuno sa cosa siano i social. Beata ignoranza e bella presenza.

Gimme oppioidi I am pretty

Tornare a stare con i miei dopo 25 anni è un po’ come saltare 56 sedute di psicoterapia e passare direttamente dalla stretta di mano a mangiare penne al sugo a tavola con le mie nevrosi (penne di cui – ovviamente – mia madre conterà le calorie).

Due settimane fa stavo andando al lavoro in scooter, una daltonica in auto ha confuso il semaforo rosso, ha attraversato la carreggiata e mi ha centrata in pieno, spedendomi a trascorrere i successivi due mesi a casa con qualcuno che possa fare per me quel che io non riesco a fare da sola: tutto.

La prima settimana l’ho passata in ospedale, in stanza con la signora Michelina che mi illustrava i suoi centrini in molisano stretto e accendeva Canale 5 alle 6.30 per spegnerlo alle 22.30 (se esiste un inferno me lo immagino composto da: incomprensione – dolore fisico – Barbara D’Urso a volume da rave).

La seconda settimana l’ho passata in uno stato di semi-coscienza, in cui il rincoglionimento da oppioidi si alternava a feroci momenti di rabbia. Di questa fase ho vaghi ricordi, addolciti dalla bambagia degli antidolorifici e dalle visite e telefonate degli amici, di cui purtroppo ho pochissima memoria.

La terza settimana comincia ora, con il sole fuori dalla finestra della mia cameretta di bambina, rimasta intonsa mentre io attraversavo una vita; solo gli angoli arricciati delle foto attaccate con lo scotch alla scrivania e giocattoli delle mie nipoti riposti tutt’intorno a me: Madonna della sfiga e dei canali Mediaset.

Insieme alla stanza è rimasto immutato anche il comportamento dei miei genitori, acuito dalla vecchiaia e arricciato su ste stesso come le foto dei miei innumerevoli inter-rail. Mia madre è da sempre ossessionata dalla superficie. Le persone si dividono in belle e brutte: le belle sono magre, le brutte sono dal ricovero per anoressia in su. Ultimamente ho visto lievi miglioramenti quando l’ho sentita dire “Sarebbe una bella ragazza, peccato sia così grassa”, mentre guardava un’esibizione di Gaia, cantante italo-brasiliana poco più che ventenne, taglia 42. Le cose si dividono in sporche e pulite: le sporche sono tutte, le pulite sono quelle che escono dalle tre lavatrici fisse al giorno, dalla rivoluzione architettonica quotidiana della casa, dalla disinfezione ossessiva di angoli, oggetti, parti del corpo. Il giorno dopo l’incidente ha recuperato i miei effetti personali, e ha lavato IL CASCO. Ha disinfettato, pulito e lucidato quello che non solo era la prova di un incidente stradale, ma un oggetto che probabilmente non utilizzerò più nella vita, e soprattutto: chi mai laverebbe un casco? Nei rari momenti in cui non è dedita a siflarmi il pigiama mentre dormo (indossato fresco di bucato la mattina stessa), passa il tempo a programmare i pasti, in cui mette in tavola una quantità di cibo sufficiente a sfamare la popolazione del Lussemburgo, per poi cazziarmi qualsiasi cosa io tocchi: “Quella lì fa ingrassare eh”, mi fa notare mentre inforco la bietola al vapore.

Mio padre è il classico bullo di quartiere che ha sempre risolto tutto prendendo a pugni la gente. “Se questo incidente fosse successo dieci anni fa gliel’avrei fatta vedere io alla signora”, per fortuna è capitato adesso e il buon avvocato si pagherà il riscaldamento della piscina con la mia percentuale, limitandosi a mandare qualche mail all’assicurazione. Il bullismo di mio padre diventa ingestibile in compagnia, quando si trasforma in giullare che tenta di far ridere umiliando i commensali. Durante le recenti visite dei miei amici, ha messo in scena tutto il repertorio, suggerendo che mi sarei data varie martellate da sola per mettere in mostra i lividi, che starei facendo la vittima per una “piccola caduta dal motorino”, invece lui sì che è stato male spezzandosi una gamba durante una gara di motocross, e poi sembro confusa ma in realtà guardo la tv tutto il giorno, e così via, in una escalation di sminuimento che non interessa (più) né a me né tantomeno a persone che mi danno così tanto valore da venire a trovarmi fino qui, in questo paesino dove giornate tutte uguali sono scandite dalle lavatrici di mia madre e dal profumo di disinfettante.

Ed eccomi qui, seduta a tavola con l’origine di ogni mia più recondita paranoia. Io che mi vanto della mia indipendenza e autonomia, che ho sempre faticato a chiedere aiuto agli altri e ad appoggiarmi a qualcuno, sono qui a dover chiedere a mia madre se per favore può versarmi un bicchiere d’acqua e a mio padre se può sorreggermi mentre mi alzo dal letto. Io che vivo completamente sola da otto anni, sono stata investita e catapultata nella vita di due 77enni, a cui ho stravolto le giornate e le abitudini, a cui ho chiesto lo sforzo di accogliermi e la fatica di accudirmi: un’adulta immobilizzata nella stanza dei ricordi di bambina.

Nella mia esistenza gli eventi si incontrano in quel brevissimo istante di raccordo in cui mi lasciano rotolare da un estremo all’altro. Ci sono state due settimane di “vita vera” tra il mese di isolamento totale a causa del Covid e la convivenza forzata a causa dell’incidente: quindici giorni in cui ho tentato di rimettermi in pari con una quotidianità che ciclicamente viene stravolta, con il lavoro che cambia annualmente, con potenziali relazioni che riesco sempre a sabotare. Quando ho raccontato a Fiammetta dell’incidente e delle conseguenze mi ha detto: “Fede, ora con il gambone non potrai scappare”. Forse questo chiodo nell’osso è il modo (di merda) che ha la vita di dirmi “Adesso basta, adesso ti fermi”?

Sono una donna che ha paura di diventare adulta imprigionata nella mia infanzia, dove nulla è cambiato se non la consapevolezza delle cose che succedono intorno. Sono qui per dare un senso alle mie insicurezze nascoste dietro la faccia di bronzo, alle mie dipendenze emotive barricate dietro a muri di indipendenza. Ed è qui, nella stanzetta in cui dormo circondata dalle barbie, che ho riconosciuto la mia incapacità di sentirmi vittima anche quando sono oggettivamente la vittima, il non vedermi mai abbastanza bella da volermi bene, il sentirmi sempre in difetto in una casa sempre troppo sporca e disordinata. Credo che il chiodo nell’osso che mi ha piantata qui serva a farmi capire che ora devo essere io a stabilire per me stessa il livello di accettabilità delle cose, senza lasciare che a darmi valore sia la visione deforme di qualcun altro.

Goonies never say Covid

Ho il Covid e sono isolata nel mio bilocale al Trappolone dal 27 dicembre. Eviterei di dedicare più dell’introduzione alla saturazione a 93, al Capodanno passato a letto a guardare i Goonies (never say die, ma qualche chitammuort mi è scappato), alla mattina in cui sono svenuta cercando di alzarmi e risvenuta cercando di prendere il telefono (ok, ho capito, non c’è bisogno di insistere), al periodo in cui non sentivo i sapori e mio padre mi faceva la spesa a caso al discount, comprandomi le copie cheap delle cose che mi piacciono e facendomi sentire come le adolescenti che sfoggiano chanel di cartone per emulare la Ferragni. A voi frega solo delle mie peripezie sentimentali, ed eccovi serviti.

Naturalmente l’isolamento è l’ecosistema ideale in cui piantano radici gli amati Leoni da tastiera: non puoi uscire, non puoi vederli, non puoi sorprenderli a cena con la moglie che cerca di ingozzare i figli cresciuti ad ipad e anaffettività. Del resto la cosa ha il suo tornaconto, visto che loro non possono vedere te, non possono soprenderti con il taglio di capelli di Toto Cutugno e i peli sulle gambe di Patti Smith, mentre ti ingozzi di gallette di mais che non sanno di un cazzo, e non puoi nemmeno dare la colpa al Covid.

In queste tre settimane (trascorse prevalentemente a raccogliere merde del mio cane in giardino cercando di non svenirci sopra), ho sentito con sorprendente costanza tre tipologie di uomini sbagliati, per i quali vedo già formarsi le tifoserie tra i miei amatissimi (quattro) followers.

A) L’uomo sposato con figli: in crisi con la moglie, belloccio, mi ama, battute sconce quanto basta per mettermi in imbarazzo, messaggi teneri da ubriaco, un paio di telefonate quando la moglie è al lavoro. Già sfanculato ma insistente. Che è belloccio l’ho detto?

B) L’ex redento: un milione di cose in comune, improvvisamente “issimo” (dolcissimo, preoccupatissimo, amorevolissimo). Mi ha già sfanculata lui, ma chi sono io per non concedere un’ottantaseiesima possibilità a uno che mi ha ghostata? Che è issimo l’ho detto?

C) Lo sconosciuto: single, visto solo una volta ad un concerto, poi ognuno per sé e Covid per tutti. Intelligente, presente, molte cose in comune, compreso l’isolamento. State già gridando all’uomo ideale, ed io potrei guidare il coro, se solo non ci fossimo visti dal vivo per un totale di 8 minuti, in mezzo a circa 400 persone. Che è single l’ho detto?

Ora, prima di dare la soluzione al quiz delle personalità (non è capovolta a fondo pagina solo ed esclusivamente perché non lo so fare), mi permetto di aggiungere un piccolo siparietto “cogliona racconta”, confessando che al giorno 8 la malattia ha avuto la meglio sulla mia dignità (spoiler: mi sto giustificando) e ho mandato un messaggio all’ex (un altro) di cui mi auto-convinco against all odds di essere ancora innamorata da anni. La sequenza è stata più o meno: “sto male, ho bisogno di parlarti” – visualizza e non risponde – due giorni dopo scrive “dai che passa tutto” – seguono 25 foto di suo figlio “guarda che bello che è diventato” – io smiley con sorriso passivo-aggressivo per la rabbia di averla data a uno che pensa sia ok mandarmi le foto del figlio fatto con un’altra nei rari intervalli in cui non russava sotto al mio piumone. No Phil Collins, I can just walk away from him.

Tornando alle cose serie (sì certo, come no). Lo so raga, la A non è una soluzione. Flirtare col belloccio di turno che mi manda messaggi d’amore mentre la moglie è impegnata a lavargli le mutande non è un’opzione. So anche che è sciocco e ipocrita da parte mia pretendere che lui capisca perché lo sfanculo e non voglio continuare a sentirlo: dovrei smettere e basta. Ma nonostante stia cercando di diventare adulta, sono sempre quella che ha coniato la filosofia del Cazzomene e ammetto che qualche volta è ancora elettrizzante perdersi nello spettacolo d’arte varia di uno innamorato di me.

L’opzione B più che minestra riscaldata sembrano i passatelli che mi ha mandato mia madre per il cenone del 31, che quando ho aperto il termos traboccavano fuori come schiuma dopo aver assorbito tutto il brodo. Per quanto rassicurante sia l’idea di riavvicinarsi a qualcuno di cui conosci l’odore, è altrettanto frustrante vivere una relazione con il terrore che la storia si ripeta, che quell’odore sparisca, che tornino lacrime e abbandono al posto della dolcezza e della preoccupazione. Non c’è più fiducia: si è asciugata come il brodo in mezzo a tutte quelle promesse non mantenute.

Mi ci sono voluti 42 anni e tre settimane di isolamento per capire che le opzioni A e B sono il mio consueto modo di guardare la vita che passa dal mio bilocale vista stronzi, senza mai avere il coraggio di scendere per fare una passeggiata con uno che non debba correre a casa dalla fidanzata o a grattarsi le palle h24.

La passeggiata è contenuta nell’opzione C, che mi terrorizza e che sto già tentando in ogni modo di sabotare. Perché non ci conosciamo, perché è un odore nuovo e sconosciuto, perché potrebbe non piacermi come cammina o come mi guarda, e a lui potrei non piacere io (soprattutto se non riesco a tagliarmi il caschetto da Johnny Ramone prima di vederlo). La paura più grande deriva dal fatto che, come le opzioni A e B, anche la C potrebbe andare male, ma al contrario delle altre potrebbe anche andare bene. E allora cosa farei della mia vita? Come dice sempre mia madre, non posso mica smettere di frequentare dei casi umani, poi cosa scriverei sul blog?

Tutti i giorni della nostra vita rompiamo i coglioni per avere qualcosa che semplicemente abbiamo paura di prenderci. Basterebbe il coraggio di accettare la sconfitta e continuare a scrivere di casi umani e stronzi egoisti, oppure ci vorrebbe la forza di accettare di essere felici, ogni tanto. Giusto per cambiare aria al bilocale vista stronzi.

Ah.

In questa sospensione della vita reale che chiamiamo convenzionalmente quarantena, il concetto di “binge watching” ha sfiorato nuove vette di malattia mentale. Anche io ho dato il mio contributo alla scienza, lasciando che Netflix avanzasse in automatico per due stagioni di Master Of None, una di Tiger King, la seconda di AfterLife, le tre di Narcos (raga, qui c’è l’aggravante dell’agente Peña che ha turbato il mio sonno già tormentato dall’isolamento), un paio di film cretini, tre o quattro documentari colti (per non diventare proprio il fighino con cervello sul comodino che guarda Uomini e Donne e passa le giornate a sfogliare il “New In” di Zara).

Esaurite le novità su Netflix, ho guardato in streaming Normal People (perché avevo letto un libro della Rooney, ma per fare l’alternativa non era quello), la 195esima stagione di Grey’s Anatomy (solo perché ho cominciato a guardarlo quando avevo otto anni e voglio sapere come va a finire), e la versione serie Tv di un grande classico letterario per musicofili: High Fidelity.
Se escludiamo la fighitudine incommensurabile di Zoe Kravitz ed il fatto che il suo personaggio gestisce un negozio di dischi, per il resto mi sono rivista in quasi tutti gli episodi. Io che mi chiudo in casa a mangiare cereali e compiangermi ascoltando Prince (certo: lei a New York, io al Trappolone, ma non è questo il punto), io che vado a concerti con capi di abbigliamento che forse non sarebbero destinati all’esterno, io che alla fine raggiungo sempre gli amici anche dopo aver detto no a tutti gli inviti, io che bevo e mi ubriaco da sola al bar, io che limono con un gran figo per poi scoprire che ha il 2 davanti all’età, io che annovero tra gli ex uno con cui ho passato un weekend, io che uso le emozioni di altri per comporre playlist che sono lettere d’amore.

Non ho mai capito se i segnali arrivano tutti insieme per darmi un ceffone secco, oppure sono io a non sapere di avere i germogli di un’idea in testa, a cui cerco di ricondurre tutto quello che mi capita. Sto cercando di sfruttare questo periodo di pausa dalla vita sociale per conoscermi meglio, per scoprire chi sono al di là della Fede “in funzione” di qualcuno o qualcosa, per smettere di cercare un uomo che dia un senso alla mia presenza sulla terra oltre che alla ceretta all’inguine. Ammetto che il più delle volte mi trovo scorbutica e irritante, non uscirei con me stessa e non riesco a dare una spiegazione alla quantità di amici ganzi che nonostante tutto mi restano intorno, ma questo periodo di isolamento insieme a quella stronza di me stessa mi ha fatto ricordare com’ero quando mi volevo bene. Ero dolce, solare, entusiasta, ingenua, credulona, sfrontata e affascinante nel mio essere me stessa fregandomene altamente del giudizio degli altri.

C’è una cosa di High Fidelity che mi ha colpita più delle canzoni di Bowie e dei poster dei Wu-Tang Clan: un dialogo tra Robyn ed il suo fidanzato (che poi diventerà il migliore amico gay – story of my life), in cui lui le dice che non conta ciò che pensi di essere; è quello che ti piace a definire chi sei. A me piacciono i maglioni dei vecchi, i tatuaggi e i libri sui pirati, la montagna, gli scheletri, mi piace la frangetta corta corta e i porcini fritti, mi piace essere quella a cui gli amici chiedono consigli sulle band e si fanno trascinare dalla mia follia a Marina di Ravenna per vedere l’alba sul mare.

Tra una puntata e l’altra mi arriva un messaggio del Biondo: «Come stai? Che fai?». Gli scrivo che sto pensando di partecipare al concorsone scuola e «magari divento una prof di filosofia, mi ci vedi?». «Magari – scrive lui – la prof di filosofia che faceva la barista al Covo, scriveva su Rolling Stone e andava ai concerti al Freakout». Il mio amico mi vede così e mi vuole bene (anche) per questo. Forse allora anche gli altri. Forse allora anche io. Forse allora non è tardi per essere quello che mi piace. Forse lo sono sempre stata.

Guardo altri due episodi e mi chiama un fotografo che lavora con Sara e che ho promesso di aiutare per un progetto. Parliamo spontaneamente di qualsiasi cosa per circa un’ora, poi in un momento di silenzio mi chiede: «Ma tu chi sei?». Dunque, boh, non saprei, sono amica di Sara dall’università, facevo la giornalista, ma ora non più, ora faccio la cameriera, però insomma, mi è rimasto il fiuto per le storie interessanti. «Beh – dice lui con un adorabile accento romagnolo – ma tanto per fare la giornalista sei sempre in tempo: puoi tornare ad esserlo quando vuoi».

Ah.

Le cose che ti dice uno sconosciuto: quelle di cui avevi bisogno. Quelle che annaffiano i germogli dell’idea che non importa cosa c’è scritto sul tuo curriculum o sul campanello: io sarò sempre quella che ascolta musica nella sua testa 24 ore al giorno, che va ai concerti in pigiama, che scrive lettere d’amore di notte e fa playlist per ogni stato d’animo. E questo sarà sempre l’unico punto fisso di tutta la mia storia: il resto sono sfumature che cambiano a seconda della luce e di quanta voglia di andare a fondo ha chi le guarda.

Pantone Cadavere

Ci si abitua a tutto. Alle mancanze, alle presenze, ai difetti propri e degli altri, a vivere insieme, a stare soli. Il tempo non cura tutte le ferite, è l’abitudine a permetterci di convivere con le cicatrici. Passano i giorni, le settimane, e quello che sembrava straordinario e inedito diventa la regola, diventa normale.

Dopo un mese e mezzo di quarantena la mia quotidianità si snoda tra gli angoli azzurri della camera da letto e quelli gialli del salotto (sì, lo so, vivo nella casa dei puffi), con qualche pausa giardino, ma breve perché sono Pantone Cadavere e perché tra le gioie di questa splendida annata posso annoverare la mia prima esplosione di allergia.
In un percorso a tappe fatto di letto-divano-sdraio-divano-letto-tavolo-letto, cominciano e finiscono giornate eterne consumate perlopiù a cucinare prelibatezze vegane (e fotografare, e inviare, e promettere ad amici entusiasti, che nel frattempo stanno grigliando costolette e arrosticini), a prendermi cura di me stessa per non precipitare nel girone estetico Controlla (barbona uoma sciatta con capello unto), a guardare serie Tv che tutti mi avevano consigliato («Chi cazzo sei, la Corea del Nord che non hai visto niente?»), a intrattenere rapporti telematici per non alimentare il Mauro Corona che è in me.

Nella nuova routine da isolamento forzato, è diventato normale vedere gli amici solo attraverso lo schermo del Mac o quello crepato del telefonino, ed è normale attendere le videochiamate con l’ansia con cui un tempo aspettavo di intervistare Peter Gabriel. Con la stessa eccitazione, del resto, vivo i minuti che mi separano dal portar fuori la spazzatura, per non parlare di quello straordinario giorno della settimana in cui torno a guidare l’auto e arrivo fino alla Coop del Comune limitrofo per fare la spesa: una vera fuorilegge.
Le giornate si aprono con la rassegna stampa Instagram e si chiudono con una breve videochiamata ai miei genitori, che per l’occasione hanno imparato ad usare whatsapp.
Tutto il resto è rimuginare.

Rimugino sul passato e sul presente, mentre cerco con tutte le mie forze di evitare il futuro per non concludere la quarantena in una vasca di Xanax. E ora che l’abitudine ha reso non solo accettabile, ma normale questa spaventosa situazione, ripenso a quante volte, nella vita, mi sono dovuta assuefare a situazioni straordinarie, inevitabili, terrorizzanti. E a quante volte la consuetudine sia stata la salvezza ma anche la vera fregatura. Perché il bello della quotidianità è che si rende evidente proprio quando ti viene sottratta, e in questo periodo più che mai ci troviamo a corto di tutto quello che fino al 7 marzo davamo per scontato.

Io, per esempio, mi sono sempre abituata a vivere in funzione di qualcun altro: la figlia di Bertino, la sorella della Lisa, la fidanzata di Dedu. Essere il riflesso di qualcun altro non ha certo agevolato la sicurezza in me stessa e nelle mie capacità, ma sicuramente ha alimentato la convizione di essere completa soltanto in presenza di qualcun altro. Così gli ultimi anni li ho spesi a cercare di riabituarmi a vivere in funzione di me stessa: ad ascoltarmi, a conoscermi, a capire chi sono e cosa voglio, a fare cazzate (soprattutto a fare cazzate) e ad imparare dagli errori per non finire come Meredith Grey, che alla 59esima stagione di Grey’s Anatomy continua a imperterrita a fare le stesse stronzate.
Forse mi ero assuefatta anche a vivere di questa ricerca senza fine, perché ora che mi trovo davvero sola, a fare i conti con me stessa, a pranzare e cenare da sola, a cavarmela con le mie uniche forze, non mi sembra di essere davvero preparata. Mi manca l’idea di poter prendere un aereo e andare a Barcellona da Daria, da Tobi e dalla Manu, o a Parigi dalla Fra, o ad Amsterdam da Jenni; mi mancano le Augustiner fresche al Mutenye, mi mancano i neon di Zara, i pranzi da Bio’s, la pizza di Totò, mi manca il consumismo. Ieri, in coda per entrare alla Coop, chiacchieravo di antropologia con un anziano signore (sì, perché tra le nuove consuetudini da quarantena ci sono amabili simposi con i vecchi davanti ai supermercati) e ci auguravamo che tutto questo potesse insegnare qualcosa all’umanità. Lui, sorridendomi con gli occhi rugosi mentre il vento gli sompigliava ciuffi di capelli candidi, ha detto «Quando finirà, torneremo a prendere aerei, comprare vestiti: ricominceremo a spendere soldi. Torneremo dritti tra le braccia del consumismo, perché questo è quello che normalmente ci fa sentire completi».

La normalità fino al 7 marzo era fatta di birre, straccetti di seitan e jeans nuovi: il consumismo ci rendeva completi. La normalità oggi è fatta di risotti, skypecall e pigiami: chissà cosa ci rende completi. Forse l’illusione di poter tornare esattamente a quello che avevamo lasciato, il miraggio di potersi infilare nuovamente nell’avvolgente routine a cui eravamo abituati. O forse dovremmo lasciare che il passato sganci l’ormeggio e ci lasci esplorare una nuova quotidianità, fatta di meno cose e più dialoghi, di delfini a Marina di Ravenna e cinghiali in via San Mamolo, di pranzi vegan cucinati da me mentre Sandro griglia arrosticini, di lunghe chiacchierate con gli anziani del quartiere e videochat con i miei genitori, di volersi bene a prescindere dal giudizio degli altri, di riempirsi la testa di cose belle e non gli armadi, di stare vicini anche quando si è lontani. La quarantena mi ha insegnato che le cose importanti non sono materiali, ma così sottili e trasparenti da trovare sempre un modo per entrare nella mia casa e scaldarla.

Urbi et orbi (ma soprattutto orbi)

Quando vivevo a Milano assistevo sempre ai saluti tra i miei due amici toscani: «Sicché?» domandava Jacopo, «Sicché niente» rispondeva Gilberto, poi si partiva verso il Frida con una sigaretta in bocca.

Ecco la mia quarantena è una lunga serie di “Sicché niente”, intervallati da qualche (non) contatto con umani dalla pelle pixelata e lunghi scambi di consapevolezze con le mie amiche romagnole, che di tempo per rimuginare direi che ne abbiamo in abbondanza.

Tralasciando i miei profondi e non richiesti pensieri sul cosmo e le infamate ai casi umani che frequentano le app per incontri, la cosa che mi ha stupito di più dell’isolamento forzato è che si è trasformato un po’ per tutti in una sorta di indulto sentimentale, una benedizione urbi et orbi (ma soprattutto orbi), uno spargimento di seconde possibilità neanche fossero granaglie ai piccioni.

Al giro di boa della quarta settimana chiusa in casa da sola con quel martire del mio cane, comincio ad aspettare con ansia i saluti da giardino a giardino col mio vicino geppo, che fino ad oggi avrei sempre preso a sprangate nella schiena perché lascia che suo figlio sociopatico giochi a pallone in casa, facendomi rivivere ogni fottuto giorno il terremoto dell’Irpinia. Si parla sempre e solo di argomenti futili e poltica livello base, ma tra uno «Speriamo che i no vax abbiano imparato qualcosa» e i consigli non richiesti sulle aziende agricole della zona «Che è sempre meglio comprare dagli italiani», mi verrebbe quasi voglia di tirare giù il muro di lauro che ho fatto crescere negli anni proprio per non guardare in faccia il poveretto.

Poi c’è il pelatone che vive sopra ai geppi, che io ho sempre snobbato perché è il classico palestrato color cuoio con i rayban a goccia, però al giorno 28 di reclusione, ho cominciato a sistemarmi prima di uscire in giardino la mattina, perché il geppo sarà anche sepolto da una siepe di quattro metri, ma il manzo muscoloso dal terzo piano mi vede e mi sorride ogni mattina mentre suda a torso nudo sulla cyclette sistemata sul terrazzino di un metro quadro e prende il sole, che non sia mai che si sbiadisca senza lampade. (Ecco, diciamo che con lui potrei aver rovinato tutto quando l’altro giorno mi sono addormentata sulla sdraio ancora ubriaca dalla skype call della sera prima, e temo abbia anche zoomato sulla striscia di bava che ho lasciato sull’edizione economica di Please Kill Me).

Non parliamo poi di amici che non sentivi dal tempo in cui eri nei lupetti e ti insegnavano cose utilissime per la tua vita adulta come cagare in un cesso chimico o incidere il tuo nome su un tappo di sughero, o quelli che hai conosciuto ad una dancehall in Salento 185 anni fa, quando nemmeno ti ricordavi il tuo di nome, figurarsi quello del fricchettone con i cani: in questo periodo sono tutti grandi amici bubicachiluli, e stavolta davvero la cena la facciamo, e poi prometto che vengo a trovarti, e ti posso garantire che ti ho pensato sempre in questi 93 anni di assenza, no – ma scherzi – tvb tantissimo anche io. Da quando non puoi parlarci, ogni essere umano sta davvero combattendo una battaglia di cui non sai nulla, ma ora vorresti conoscerne anche il minimo dettaglio. Qualsiasi voce non “metallizzata” dal segnale di merda del WiFi è una possibile interazione umana, ogni sorriso scambiato dietro la mascherina mentre imprechi in coda alla Coop è un segnale che ancora non sei un vampiro, ma un animale sociale che sta soffrendo la totale mancanza di convivialità.

Di contro – e qui lascerò di stucco i miei quattro fan accaniti – tutta questa mancanza di abbracciatone con i miei colleghi polacchi, tutto questo non toccarsi, non parlarsi, non annusarsi, tutto questo bisogno di amicizia e condivisione, tutta questa nostalgia delle chiacchiere a notte fonda davanti ad una pinta di Augustiner fresca (e al barista figo), ha preso il sopravvento sulla mia ricerca spasmodica del grande amore. Ho cominciato a bloccare gli stalker da social network (ah raga è una dipendenza, una volta imparato volevo bloccare anche il mio medico di famiglia), ho aperto e chiuso dopo sole otto ore il mio primo profilo su una app per il dating online (i dialoghi erano fantastici: «Ah fai l’infermiere, sarai impegnatissimo immagino» – «Sì. Quanto sei alta?»), e ho accettato l’idea che posso sopravvivere anche se non ho qualcuno a cui mandare la buonanotte.

Del resto il buongiorno posso darlo al vicino geppo di là dalla siepe, posso sorridere al pelato col petto lucido del terzo piano, e magari hanno ragione le mie amiche e finita la quarantena la daremo a tutti quelli che ce la chiederanno, ma per ora quel che mi manca di più sono i sorrisi, la complicità, le carezze, e forse anche la splendida casualità con cui fuori da qui puoi incrociare lo sguardo benevolo di qualcuno senza doverti dare appuntamento su Zoom.

Mostri cattivi

Grazie a questa quarantena, anche gli uomini avranno capito come ci si sente in pre-mestruo. Il mio umore cambia radicalmente da una stanza all’altra, e faccio notare che vivo in un bilocale. Entro in bagno euforica, pronta per truccarmi e acconciarmi che manco alla cresima, e ne esco con gli occhi di panda e le chiappe quadrate dopo essere stata venti minuti seduta sulla tazza a piangere disperata. Cucino ballando le mie verdurine, per poi condire con le lacrime le zucchine al curry e il riso basmati. Radiosa e brillante (ubriaca) in videochat, gattara senzatetto in cameretta.

(Questa foto è stata scattata a novembre 2019)

Visto che in questi giorni quasi nessuno ha una cippa da fare, ecco che proliferano online gli inutili e non richiesti articoloni di espertoni sulla qualsiasi. Ogni situazione ha un nome, ogni emozione un’etichetta, ogni tragedia una ragione (generalmente da ricercare in un’infanzia drammatica, fatta di cioccolatini negati e barbie rasate a zero). Ieri mi è dunque capitato tra le mani (o meglio tra i giga) il testo imprescindibile che spiegava l’ormai conclamata “depressione da quarantena”: un sentimento di sconforto, dovuto al fatto che la nostre psiche sta affrontando un evento completamente inedito che non ha idea di come fronteggiare, e quindi ha bisogno di tempo per adattarsi alla nuova condizione. Mi è sembrata la cosa più cretina che ho sentito nelle ultime settimane, e posso garantire che fra complotti, 5G, disinfettanti con gli elicotteri e tedeschi che non si ammalano ne ho sentite davvero parecchie.

Vorrei capire quali sono gli eventi “editi” della nostra carriera sulla terra; a cosa siamo realmente preparati psicologicamente; quale evento gioioso o drammatico siamo pronti ad affrontare perché ne conosciamo l’entità e le conseguenze; quando cazzo mai. Vorrei sapere se qualcuno si è mai sentito sereno nel seppellire un suo parente perché tanto dai, alla fine è già morta anche la nonna, cosa vuoi che sia. Vorrei mi dicessero se posso smettere di cercare la felicità, tanto a 40 anni sono già stata felice altre volte, cazzomene: sarà sempre la stessa storia.

Ci sono cose che davvero non capisco della psicologia e degli psicologi, ma altre che mi sono estremamente chiare. Ieri è morta mia zia da sola, in un letto di ospedale. Aveva 80 anni ed era malata da tempo, ma nessuno di noi ha potuto salutarla, nessuno di noi potrà seppellirla, ed io non potrò abbracciare mia madre che sta a cinque chilometri da casa mia e che ha perso sua sorella. E questo è indubitabilmente TRISTE.

La mia migliore amica da giorni ha tutta la famiglia in ospedale: la mamma allettata con l’ossigeno, il papà intubato, il nonno tenuto in vita per miracolo e la nonna ci ha lasciati la notte scorsa. Lei, a casa da sola in isolamento forzato, aspetta ogni sera la chiamata di uno dei tre ospedali per avere notizie delle persone più importanti della sua vita. E non ha nemmeno la possibilità di recuperare la fede nuziale della nonna. E questo è incredibilmente, indubitabilmente TRISTE.

Ci sono eventi in questa vita che sono oggettivamente drammatici e difficili da affrontare, quello che sta succedendo là fuori dal mio bilocale è uno di questi. E per quanto io ami fare la cogliona superificiale che fa ridere con le battute sagaci, ci sono momenti in cui mi siedo sulla tazza e tutto questo dolore prende il sopravvento sui buoni propositi, i manicaretti salutisti, le chiappesode, la casa splendente e la rinascita dal fango.
Poi mi appare in videochiamata mia nipote Bianca, 3 anni, che non capisce perché piango e mi chiede se può guardare Harry Potter: “Stai tranquilla zia, i mostri cattivi io li ho già visti e non mi fanno paura”.

Quaranteen

Non esco di casa da tredici giorni. I primi sette li ho trascorsi deambulando in pigiama tra letto e divano, immersa quasi costantemente in un Instagram-mondo fatto di gente con fiori in faccia, lune in fronte, pelle di pesca, guance luminescenti, orsetti gommosi sulla testa, e raga se avessi saputo che andavano tanto di moda le lentiggini avrei fatto l’influencer.

Ho alternato Netflix a piantarelli insensati, skypato la mia disperazione alle amiche all’estero che ancora non avevano idea di cosa stesse succedendo, ho persino creato un profilo in un sito di incontri con la speranza di trovare qualcuno con cui fare quattro chiacchiere in quarantena (profilo cancellato dopo sole otto ore all’ennesima richiesta di “foto tette”). Ho versato qualche lacrima pensando al compleanno che passerò in casa ad ubriacarmi da sola invece che in Giordania con mia sorella, e al 50esimo anniversario di matrimonio dei miei genitori, per il quale avevo preparato album fotografici e cenoni con i parenti. Ho corretto tutti i congiuntivi nei testi delle canzoni dei Lunapop, che il mio vicino si ostina a cantare a squarciagola ogni pomeriggio alle 18, e lasciato che il mio cane trasformasse il giardino in un campo minato di merde.

Poi una mattina mi sono svegliata presto e ho capito che solo io posso decidere se questo tempo indefinito di reclusione che ho davanti è un’opportunità oppure una condanna. Ho indossato la mia maglietta leopardata preferita (ragazze, quando avrete 40 anni capirete) e ho stabilito un piano serrato per sfruttare al meglio la nullafacenza. In cinque giorni ho messo insieme tante di quelle nuove abitudini da dovermi segnare in agenda le conference call con gli amici. Ho imparato grazie ad un tutorial a farmi le fondamentali “beach waves” con la piastra per capelli, sto cucinando piatti equilibrati e leggeri che mai avrei pensato di essere in grado di realizzare; faccio pilates tre giorni a settimana con un workout in diretta su Instagram che si chiama “chiappasoda”, e ieri sono caduta per terra praticando yoga davanti al computer (livello flessibilità: Maria De Filippi). Ho pulito tutta la libreria, spolverando volume per volume, e riordinato i libri per contenuto: musica, arte, narrativa prefe, narrativa a caso, pirati, poesie, guide. Ho messo a posto tutte le foto e districato fili elettrici nel leggendario scatolone “cavi” che tutti noi teniamo da qualche parte nell’armadio; ho sentito e consolato gli amici, anche quelli che vivono lontano, ho scoperto di amare lo yogurt di soia e di avere tantissimo bisogno di mollette colorate per i capelli.

Ho ascoltato musica che non sentivo da anni, e poi ho scritto: favole, racconti, diari, battute divertenti, messaggi d’amore. Ho scritto per me, mi sono vestita e truccata per me, voglio essere in forma per me, voglio imparare cose nuove per me. Questo isolamento forzato lontano da tutti è forse il momento perfetto per reimparare a conoscermi ed eventualmente reinnamorarmi. Capire cosa desidero e dove vorrei arrivare, libera dal giudizio e dalle opinioni dei miei genitori, di mia sorella, degli amici, dei conoscenti. Siamo io ed io in questa vacanza introspettiva alla ricerca delle mie qualità, e sono certa che da questa esperienza assurda uscirò migliore di come ci sono entrata. Di sicuro avrò una casa pulitissima e capelli molto più alla moda, conoscerò mio malgrado tutti i testi dei Lunapop e – se sopravvivo allo yoga – avrò le chiappe più sode del west.

Holiday On Ice

Da sei giorni non ho alcuna interazione umana “reale”, eccetto il cassiere della Coop che giovedì scorso, borbottando dietro una mascherina chirurgica, mi ha chiesto se colleziono i bollini, e mia madre che gesticola attraverso la vetrata del pianerottolo in cui le lascio la spesa: un paio di minuti al massimo, poi scappo in auto perché mi viene regolarmente da piangere senza motivo.

Solitudine, isolamento. Concetti che in questi anni ho temuto ed agognato, disprezzato e desiderato. Oggi obbligatori e fatti di telefonate lunghissime, vocali eterni, flash mob, facetime, dirette su Instagram, shopping online, ti chiamo dopo, ci vediamo su Skype, aperitivo in conference call.
Io stamattina mi sono alzata col mal di schiena, ho aperto le finestre, fatto colazione, una doccia calda, ho asciugato i capelli e li ho persino spazzolati, ho infilato i leggings neri e la felpa nera (che non c’è un cazzo da stare allegri). Mi sono guardata nello specchio e ho pensato che forse dovrei farmi una maschera, o truccarmi un po’, o magari mettere lo smalto rosso che fa tanto figa francese stilosa. Poi ho anche pensato: ma per chi. Non sono una farmacista, un’influencer di Instagram che fa le dirette con gli amici fighi, una personal trainer intelaiata che pubblica gli esercizi per rassodare le chiappe, non faccio la cassiera della Coop dove riesco almeno a propinare bollini. Non posso uscire dal mio bilocale se non per far fare al cane il giro dell’isolato (tanto poi mi caga in giardino), e il vestito di paillettes in stile Holiday On Ice potrebbe intralciarmi nel cammino.

Va da sé che lo scenario apocalittico è ideale per rimuginare sugli errori del passato, imparanoiarsi sul presente e deprimersi per il futuro. L’eventuale fine del mondo scatena il rimpianto per non aver chiesto il numero al barista carino (e il rimorso di averlo dato al caso umano al bancone), la voglia di aprire un account Tinder, la necessità smodata di fare sexting con uno sconosciuto a caso così, tra la tisana e le chips di cavolo nero, per poi non sentirsi mai più. Ma soprattuto la pandemia ha acceso in me il fottuto pulsante del bisogno di affetto e di attenzioni. Così in una settimana di isolamento (e ovulazione, temo) ho mandato a puttane tutti gli sforzi fatti in cinque anni da gran signora a guardar tutti dall’alto del mio cuore di pietra / non vi cago merde.

Nell’ordine ho chiamato il mio ex storico, che ovviamente non ha risposto al telefono. Allora, per paranoia ma soprattutto per principio, gli ho mandato un sms preoccupato, a cui ha fatto seguito risposta telegrafica rassicurante, che ha scatenato il mio sfogo “sono triste, cassintegrata, a casa col cane”, e allora lui giustamente ATREYU, IL NULLA. Poi ho frantumato i coglioni a Giulio, che per sua fortuna vive dall’altra parte del mondo, ma ha fatto l’errore di abituarmi ad un rapporto a tratti morboso fatto di chat notturne (le mie) e vocal ventosi (i suoi), tenuti insieme dal reciproco “ci sono sempre per te”, che quando un uomo ti dice così vorresti non vivesse in Australia per sfidare la quarantena e farti arrestare mentre corri a dargliela, così senza neanche un velo di correttore per le occhiaie. Poi ho scritto al fratello della mia migliore amica: mai visto dal vivo, ma colto e gentile al punto da entrare ad honorem nella rosa dei candidati alla mia prossima ossessione virtuale. Infine sono anche riuscita a rendermi ridicola cercando invano di recuperare il numero del barista carino, che nel frattempo sta però trascorrendo la quarantena in compagnia di un’altra, probabilmente con una ventina d’anni in meno di me e sicuramente una manciata di dignità in più.

Poiché l’isolamento è previsto almeno per altre due settimane, mi riservo la possibilità di mandare un sms al mio ex miglior amico con cui non parlo da otto mesi ma di cui sento la mancanza, di chiamare l’uomo sposato di cui sono stata l’amante per quasi un anno e del quale mi sono liberata a suon di lacrime e terapia, di compilare un profilo su OkCupid e accettare i bollini dal cassiere della Coop, che sostiene di essere svedese di padre arabo e madre pure.

Purtroppo essere consapevoli delle proprie fragilità non basta a tenere insieme i pezzi. So bene di aver tentato tutte queste strade per sfuggire alla solitudine e non rassegnarmi all’idea che non ho nessuno in testa e nel cuore (con cui per altro fare una bella videochiamata in ghingheri), ma ho anche la certezza che quei sentieri mi riportano sempre qui. Al mio bilocale, al mio cane morboso (da chi avrà mai preso?), alle mie occhiaie da intonacare ogni mattina, alle mie lacrime senza senso, alle videochiamate, alle conference call con le mie amiche, alla mia mamma che mi manda i baci dietro il vetro, alla mia voglia di amore e attenzioni, che qualche volta mi fa perdere completamente il lume della ragione, ma per la maggior parte del tempo mi fa essere la pazza dolce e romantica che porta fuori il cane con addosso un vestito da sera.